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domenica 15 settembre 2024
 
L'arcivescovo e il regista
 

Delpini: «Noi adulti infondiamo nei ragazzi la voglia di diventare grandi»

20/11/2023  L’arcivescovo Mario Delpini si è confrontato con il regista Matteo Garrone dopo la proiezione di “Io capitano” dedicata agli operatori del terzo settore: «Voi che siete qui impegnati vorrei elogiarvi; voi che vi dedicate siate capaci di inventare un’Italia e un’Europa diversa»

È durato a lungo il caloroso applauso sui titoli di coda dell’ultimo film di Matteo Garrone Io capitano nella sala del San Fedele di Milano gremita di operatori del terzo settore. Una serata promossa e partecipata dall’Ufficio per la Pastorale dei migranti della Diocesi di Milano, Caritas Ambrosiana, Fondazione Culturale San Fedele, Associazione San Fedele Odv, Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani”, Azione Cattolica Ambrosiana, Centro Pime e Fondazione Ente dello Spettacolo.

Introdotta da padre Andrea Dall’Asta, responsabile di San Fedele Cinema, è stata moderata da monsignor Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo che ha atteso la fine dell’appassionata standing ovation per sollecitare l’arcivescovo Delpini sulle prime reazioni a un film così drammaticamente attuale. «È un viaggio nel cuore dell’uomo,  capace di solidarietà così audaci e cattiverie così spietate; di sognare e di trasfigurare la realtà. Un’odissea con tanti pericoli. Questo film mi interroga e mi provoca su come siamo fatti: come si fa a essere così cattivi? Come si fa a sognare al punto da mettere a rischio la propria vita? Cosa c’è nel cuore di chi si ferma in mezzo al deserto per aiutare una donna che sta per morire pur rischiando di morire lui stesso? E allora grazie al regista che mi ha accompagnato in questo viaggio così difficile da sopportare».

A Garrone le premesse al film. «Il film nasce dal desiderio di dar voce a chi si solito non ne ha. Dall’ascolto e dalla tensione a dare forma visiva a quella parte di viaggio che non si vede. È un’esperienza emotiva: il viaggio in soggettiva visto dalla loro parte. Mentre noi ci siamo abituati a vedere le barche che arrivano e alla rituale conta dei vivi e dei morti, qui ribaltiamo il punto di vista di chi sogna di partire, vittima di un paese ingiusto. I protagonisti del film sono due ragazzi senegalesi che vedono il nostro mondo dai social, dalla tv; un mondo che fa loro promesse luccicanti, ma non sanno cosa c’è dietro ai lustrini. Il 70 per cento dell’Africa è giovane e molti di loro sognano di venire qui. Poi scoprono cosa c’è davvero». Un film che nasce per loro e insieme a loro: «Mi sono messo a disposizione per raccontare la loro storia e il loro viaggio. Sia in fase di scrittura sia di riprese; quasi tutti hanno realmente fatto quel viaggio. Attraversato il deserto, subito le torture e attraversato il mediterraneo». Con la difficoltà della lingua: «Non conoscevo il loro dialetto, ma mi fidavo. Tutto il film si basa sulla fiducia reciproca. Qualche settimana fa dopo una presentazione una signora mi ha detto “lei è un regista spettatore” c’era qualcosa di vero. A me il compito del primo ciak sul set, ma poi ricreavano qualcosa che avevano vissuto, del tutto nuovo rispetto a quanto immaginato. Io non facevo accadere le cose ma creavo le premesse perché si potesse ricreare».

In sala tantissime persone impegnate ogni giorno in associazioni che si occupano di accoglienza, da Caritas ambrosiana, alla pastorale migranti della Diocesi, al Pime, alla Casa della Carità a cui monsignor Delpini ha dedicato un pensiero speciale: «Ho visto Dio in tanti passaggi; come nel cinquantenne muratore che “adotta” il ragazzo e lo tratta come un figlio perché, per quanto l’uomo possa negare la sua verità profonda con la cattiveria, quella verità resiste. Pur nella drammaticità della storia, resta il bisogno di un rapporto con Dio. “Allah è grande” urla il capitano quando sull’imbarcazione che li riporta in Italia si crea tensione. In nome di Dio si calma la rissa e si ricrea una nuova solidarietà e la certezza/speranza che non morirà nessuno. Questo film non è il racconto di un ragazzo che diventa un eroe, ma della potenza della docilità che è il senso della nostra fede».

Un film, ha commentato Milani, che finisce idealmente «con il protagonista che ci guarda negli occhi come se da lì toccasse a noi. I ragazzi che lo vedono nelle sale ci dicono “non sapevamo nulla di quel che abbiamo visto”. Tutti noi siamo travolti da frammenti di notizia. Il regista li ricompone per restituirci una storia che ci interpella». «Questo è il mio lavoro» ha ribattuto Garrone. «Al di là delle informazioni che sono la parte meno sorprendente - più o meno si sa e anche i ragazzi lo sanno che si muore in mare, in viaggio - la differenza qui è che è racconti un’avventura e quindi per loro diventa più accessibile. Entrano emotivamente in empatia con un coetaneo che ha desideri vicini ai loro: viaggia, fa musica, ha genitori che si preoccupano per lui. Scoprono che dietro ai numeri sui barconi ci sono ragazzi come loro che vivono un’avventura epica e hanno una forza vitale di voglia di conoscere che li spinge a combattere contro un sistema ingiusto, contro la morte per la vita. Quel che colpisce di Seydou, il protagonista, è che rimane innocente e puro fino alla fine. Resta umano».

Un cinema, quello di Garrone, ha proseguito Milani che «racconta con una cifra stilistica particolare che è quella di trasfigurare la realtà nella fiaba e questo ci permette di entrare in empatia e non sentici giudicati. Mentre la migrazione, per come viene raccontata dai media, pregiudica i nostri comportamenti». E ha concluso chiedendo a Delpini «abbiamo una responsabilità anche noi per come raccontiamo i migranti?». La risposta dell’Arcivescovo è stata lapidaria: «Mi fa soffrire l’ottusità del contesto contemporaneo che riduce tutto ai numeri suscitando in chi ascolta emozioni passeggere. Il numero non dice niente se non c’è una storia. Quando, invece, dietro al numero ci sono persone, donne, bambini; c’è chi parte per cercare il benessere della propria famiglia. In questo c’è una grave responsabilità della comunicazione, della politica, della filosofia. La Chiesa cosa dice? Cancella la parole straniero, extracomunitario; in Chiesa nessuno è straniero. Su questo bisogna riflettere: passare dalla globalizzazione che crea miti e sogni a quella di papa Francesco, della “fratelli tutti”». E rivolgesnosi agli operatori in sala ha aggiunto: «Voi che siete qui impegnati vorrei elogiarvi; voi che vi dedicate e avete attenzione, siete capaci di simpatia potete raccontare che c’è un modo di difendersi dalla notizia usata come seminagione di allarme. Partendo dai racconti che sentite per diffondere nella società un senso di appartenenza all’essere europei che smentisca che c’è da aver paura. Siate capaci di inventare un’Italia e un’Europa diversa: serve una rivoluzione culturale e voi insieme a Garrone potete essere protagonisti».

Dal canto suo Garrone, che sta seguendo il film per tutta Italia, ha detto di mettersi ogni volta «in ascolto. Cerco di vedere che emozione suscita, anche se il film non nasce per cambiare il mondo ma può sensibilizzare soprattutto i ragazzi e non solo. Sono felice che sia visto in tutte le scuole d’Italia con prenotazioni fino a Marzo. Si troveranno davanti a un film che non hanno scelto, ma che alla fine risuona nelle loro coscienze. Al parlamento europeo l’accoglienza è stata calorosa e s’e detto che dovrà andare in tutte le scuole d’Europa e oltre. Anche nei villaggi in Africa. Là da dove quei ragazzi partono. Magari non li bloccherà, ma di certo li aiuterà a vedere i pericoli a cui vanno incontro. L’altro aspetto vincente è che non abbiamo raccontato la migrazione di chi parte per la guerra. Come se fossimo autorizzati a muoverci solo in casi estremi. Abbiamo raccontato chi desidera muoversi, viaggiare e conoscere che è un diritto di tutti».

Film Leone d’argento per la miglior regia a Venezia, coppa Marcello Mastroianni al protagonista Seydou Sarr, in lizza agli Oscar. «La speranza» ha commentato Milani «è che diventi una visione obbligatoria». Per altro i protagonisti per la maggior parte sono persone che vivono nei villaggi: «Gli interpreti» ha spiegato Garrone «sono attori professionisti; Seydou vive a un’ora da Dakar, la sorella e la mamma sono attrici ma lui ancora sogna di giocare a calcio. L’altro, Moustapha Farr, frequenta una scuola di teatro. Loro hanno lo stesso sogno di conoscere l’altra parte del mondo. gli stessi desideri dei personaggi interpretati. Non ho raccontato loro la storia né letto la sceneggiatura. Non sapevano se ce l’avrebbero fatta ad arrivare in Italia. Quindi hanno vissuto le scene con una continua aspirazione. La mattina raccontavo l’avventura di quel giorno in wolf, il dialetto locale, spesso senza capirci. Ci siamo fatti continui regali, tra cui il primo piano finale un dono vero in cui Seydou ha rivissuto tutta l’esperienza di quei mesi e ci ha regalato una grande emozione. La forza del film sta nella capacità degli attori di arrivare alle emozioni del pubblico e al cuore dello spettatore».

L’incontro si è concluso con una riflessione dell’Arcivescovo sui giovani di oggi.«I nostri ragazzi sono molto diversi tra loro. Ci sono quelli che ho visto alla Gmg di Lisbona, 6000 della nostra Diocesi, tutti lì con il desiderio di essere contenti, di stare insieme per ascoltare le parole del Papa, di mettersi in silenzio. Mi sono fatto l’idea di ragazzi capaci di sognare, desiderare, cercare. Perché una cosa che manca oggi è avere un desiderio per cui fare sacrifici. I due ragazzi del film sognano l’Europa, seppur persuasi da un falso mito… Mi impressiona da noi, invece, chi non studia e non lavora. Quindi ci sono i giovani di Lisbona e quelli che non escono di casa, ci sono le bande. Io scommetto sul sale e sul lievito del futuro dei nostri ragazzi che sarà quello sognato da chi ha desiderio di missione e di cambiare il mondo. Possiamo avere fiducia perché ci sono ragazzi capaci di sognare, di avere una tale fiducia nella vita da riuscire ad attraversare il deserto. Ecco allora un messaggio di incoraggiamento agli adulti che sono qui: infondiamo nei nostri ragazzi il desiderio di diventare adulti. Dobbiamo sentire la responsabilità di infondere il desiderio di essere capaci di diventare adulti e piantare la speranza là dove vivono. Tutti, genitori, catechisti, preti ed educatori. La vita merita di essere vissuta, diventate auditi non è un pericolo da cui difendersi, ma una vocazione da realizzare».

 
 
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