Si sono dati appuntamento da Assisi 150 cappellani militari, per il corso di aggiornamento pastorale dedicato, come ogni anno, a questa particolarissima forma di servizio alla Chiesa. L’edizione 2021 ha alcune particolarità. E non solo perché si svolge in presenza, dopo il duro tempo dell’emergenza pandemica, con restrizioni e distanziamento forzato. L’appuntamento si colloca a pochissima distanza dall’apertura del Sinodo dei Vescovi, celebrata lo scorso 10 ottobre da papa Francesco. Ed è proprio in questo cammino sinodale che la settimana dedicata ai cappellani militari si colloca. “Benessere e valorizzazione della persona nelle organizzazioni militari” è il tema scelto per l’edizione in corso, che si è aperta lunedì 18 ottobre e che durerà fino a venerdì 22, alternando seminari di formazione e approfondimento (tenuti da docenti, ricercatori, psicologi e psichiatri) a momenti di preghiera comune e condivisione. Oltre ai religiosi, prendono parte all’incontro alcuni rappresentanti dell’aggregazione laicale dell’Ordinariato (Pasfa), volontari del settore e delegati delle diverse forze armate.
“I cappellani e la pastorale dell’essenziale”
«Sentirsi Chiesa è il punto di partenza di tutta la pastorale; è il “cuore” di questo Convegno dei cappellani, con la rappresentanza del popolo di Dio. La Chiesa siamo tutti: il Sinodo lo ricorda, lo riafferma, lo vuole sempre più mettere in pratica». Con queste parole, l’arcivescovo monsignor Santo Marcianò, Ordinario militare per l’Italia, ha introdotto i lavori del corso di aggiornamento dedicato ai cappellani «È bello vedere i frutti della Parola seminata nelle nostre pecore. Mi soffermo solo sul dono prezioso dei tanti catecumeni, giovani e adulti, espressione stupenda della fecondità di voi presbiteri, conferma dell’importanza del ministero dei cappellani militari; segno del vostro accompagnamento costante, di un annuncio evangelico credibile, di una sollecitudine pastorale mirata all’essenziale. Il Sinodo ci chiederà proprio di ripartire da una pastorale che riscopra, facendone memoria, l’identità e la grazia del Battesimo. Il discernimento spirituale che il Papa affida a tutti sgorga, certamente, da tale sorgente di grazia, che imprime in noi un carattere indelebile» ha poi aggiunto l’Ordinario militare.
«Potremmo dire che il cammino di per sé è già meta in se stesso; è un camminare tutti insieme, in comunione e per la missione di annunciare, raggiungendo gli uomini, i nostri militari nella loro storia e realtà» ha poi sottolineato il presule. «A voi cappellani militari, tuttavia, non è chiesta tanto un’uscita fisica, perché trovate i fedeli “dentro”. Ma ci è chiesto di uscire sempre più da noi stessi per incontrare l’altro nella sua verità e portare Cristo: non i nostri pensieri e le nostre convinzioni ma Cristo, la sua Parola, il suo Vangelo che libera e salva».
“Che amarezza lasciare l’Afganistan”
Durante l’appuntamento di Assisi abbiamo l’opportunità di parlare con don Giuseppe Balducci (37 anni), cappellano della brigata paracadutisti Folgore, uno dei 150 religiosi radunati per il corso di aggiornamento. Si trovava a Herat (Afganistan), a fianco del contingente italiano, la scorsa estate, nella difficile fase della smobilitazione. Qualcosa di improvviso e imprevisto, stabilito a livello internazionale, in un’area che il contingente italiano co-presidiava da vent’anni. «Abbiamo dovuto ripiegare in fretta» racconta il religioso, ricordando il senso di tristezza che aleggiava tra i nostri soldati. «Oltre a svolgere le operazioni militari, il contingente lavorava a supporto della popolazione locale ed era diventato un punto di riferimento. Avevamo fatto molte donazioni e lavorato attivamente a fianco di donne e bambini. Nei giorni della partenza ho visto, nel personale, l’amarezza di dover abbandonare molti progetti che stavano funzionando bene. E la preoccupazione per il futuro di una popolazione che avevamo assistito in modo concreto, con discrezione e grande rispetto. Ci rendevamo conto che quella gente non era riuscita a rimettersi in piedi e camminare sulle proprie gambe. Sapevamo bene che il regime talebano aveva ripreso il controllo, in meno di un mese, nonostante il sacrificio di tanti dei nostri uomini. Io stesso, in questi anni, ho accompagnato alcune famiglie di militari caduti. Tuttavia abbiamo lavorato fino all’ultimo per non lasciare sola la popolazione. Alcune delle persone che avevano lavorato con noi e che, trovandosi in un delicatissimo momento di interregno erano particolarmente esposte a rischi, sono state accolte in Italia grazie a programmi voluti dalla Farnesina e del Ministero della Difesa».
Restano memorie vivide. «Ricordo bene il momento in cui abbiamo dovuto “smontare” la cappella della base di Herat. Tanti militari italiani erano andati lì a pregare, affidandosi a Maria, prima delle missioni più delicate e rischiose, si erano sentiti vicini a Dio, come cristiani che stavano vivendo un momento difficile, in terra straniera. Per noi quella cappella era una certezza, ci faceva sentire a casa, ma era guardata con rispetto anche dal personale di religione islamica che operava all’interno del campo e con cui avevo ottimi rapporti. Sì, eravamo riusciti a costruire ponti». Si sente, nelle parole di don Giuseppe, una forte partecipazione emotiva: questo ha certamente a che vedere con la sua missione di religioso, ma anche con il suo vissuto personale. «Figlio di un militare, sono stato io stesso nell’esercito ed è in quel contesto che ho avuto la vocazione. Ecco perché desidero servire il Signore e la Chiesa in un mondo che conosco e al quale mi sento profondamente legato».
Al centro, don Francesco Capolupo.
«La mia parrocchia nel cuore del deserto»
Non tutti i cappellani hanno avuto la possibilità di partecipare all’incontro di Assisi. Ad esempio don Francesco Capolupo (41 anni), in questo momento si trova in missione in Kuwait, dove è arrivato 10 mesi fa. Lo raggiungiamo al telefono. «Il mio ruolo qui è paragonabile a quello di un parroco» ci racconto. Certo, però, ci sono alcune importanti differenze. La più ovvia è che intorno non c’è una città, ma il nulla. Don Francesco infatti affianca il contingente italiano (Aeronautica, Esercito e una piccola rappresentanza di Carabinieri) nella base aerea di Alì Al Salem, nel cuore del deserto. Ed è altrettanto ovvio che ci siano esigenze specifiche: «parliamo di persone che vivono, da mesi, lontane dai loro affetti, in un contesto geografico e culturale completamente diverso dal loro. C’è chi è in attesa di sposarsi, chi è partito lasciando una moglie incinta». Il contingente si occupa soprattutto di contrasto al terrorismo, che in quelle regioni spesso prende la forma del califfato islamico. «Nei colloqui personali, emergono interrogativi profondi: domande di senso. Perché il male? E che cosa invece ci spinge ad affermare il bene?». Ma in tutto questo – e in modo inscindibile - scorre una vita “da parrocchia”: «i sacramenti, i corsi di preparazione al matrimonio, tanto per la componente maschile, quanto per quella femminile, le attività in ponte con le famiglie in Italia, i progetti culturali, i tanti momenti di condivisione. Per questo non sento alcuna separazione o dicotomia rispetto ad altre esperienze di Chiesa. Indosso una mimetica, perché questo è il segno che sto condividendo la vita e la condizione dei militari, nel quotidiano. Però non porto armi. E sono semplicemente un religioso». Tra gli aspetti della missione c’è anche «la possibilità di incontrare diverse anime cristiane, rappresentate dai vari gruppi etnici immigrati qui: egiziani copti, libanesi maroniti, indiani, filippini». Perché scegliere di diventare un cappellano militare? «Perché credo che i nostri militari si sacrificano moltissimo. Non sono qui per soldi o per prestigio, ma per difendere dei valori. La loro è una scelta di servizio e per questo meritano tutto il sostegno del nostro Paese. Servire Cristo, accanto a chi serve, è la mia strada».