Bambine yazide nel campo Ishtar school a erbil
Il rumore degli aerei che sorvolano il cielo a intervalli regolari ricorda a Erbil che la guerra è ancora in corso. Anzi “la battaglia per Mosul” come la chiamano qua. Per il resto i quartieri addobbati a festa per salutare il nuovo anno quasi non sembrano quelli di un Paese impegnato a liberare il proprio suolo dal terrore dell’Isis. Andando verso Mosul le nuvole bianche e nere danno conto, anche da lontano, dei combattimenti. E carovane di civili – soprattutto donne e bambini – cercano scampo verso il Sud. Un pericolo per l’esercito iracheno chiamato a distinguere tra persone realmente bisognose di protezione e cure e militanti o fiancheggiatori di Daesh pronti a colpire in altre parti del Paese. Per questo chi fugge in macchina viene fermato e fatto proseguire a piedi. Nove check point, tra presidi di esercito e polizia iracheni e di quelli peshmerga, rendono accidentata e difficile la fuga verso la città di Erbil.
Intanto è stato fatto saltare anche il sesto e ultimo ponte sul Tigri e l’esercito iracheno ha annunciato la liberazione di altri cinque quartieri. Ma, anche se i proclami sono tornati ad annunciare la fine della guerra entro tre mesi, in realtà nessuno fa realmente affidamento sulle dichiarazioni ufficiali. Né fa pronostici su cosa potrà essere il Paese dopo che il nemico Isis sarà definitivamente cacciato indietro.
I cristiani, più di altri, temono per il futuro, divisi tra il desiderio di tornare a casa, nelle città della piana di Ninive già liberate, e la paura di nuove persecuzioni. Nei campi, nelle case in affitto, nelle abitazioni messe a disposizione dal governo del Kurdistan e dalle Chiese provano a tornare a una vita normale. A studiare, a lavorare, a mettere da parte i soldi per raggiungere i parenti in Australia, in Inghilterra, in Francia.
Questo è il terzo capodanno che passano fuori da casa, da quel 6 agosto 2014 che li ha visti raccogliere in fretta le loro cose e scappare davanti alla furia degli invasori. E oggi, nonostante le truppe irachene abbiano liberato gran parte della pianura di Ninive, nessuno può fare pronostici sul ritorno a casa. Senza corrente elettrica, acqua, servizi, con strade e case distrutte o saccheggiate e – soprattutto – senza sicurezza è impossibile pensare di tornare nei propri villaggi. «Abbiamo lasciato tutto, anche se non è facile lasciare tutte le proprie cose, la propria storia. Abbiamo perso tutto, ma abbiamo salvato la fede. Ci siamo aggrappati alla croce e, alla fine di questo anno, ci sentiamo comunque di ringraziare. E di perdonare come ha fatto Gesù», dice padre Majeed Hazem M- Attalla, fuggito con la sua gente da Qaraqosh. «Anche noi possiamo dire, come Cristo sulla croce, “Non sanno quello che fanno”. Chi ha occupato le nostre case pensa di aver preso chissà cosa, ma è solo cibo, solo denaro, solo ricchezze. L’essenziale non è questo. L’essenziale è la fede, l’essenziale è sapere che Dio ci aspetta».