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venerdì 11 ottobre 2024
 
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Jesus

Nomadelfia, un mondo a parte nel nome del Vangelo

09/05/2018  Sorge nella Maremma toscana ma è un pianeta a parte. Le 66 famiglie decidono tutto insieme da cosa si mangia a come si vota. E mettono tutti i beni in comune come ai tempi delle prime comunità cristiane. Il reportage esclusivo del mensile Jesus

Quando arriviamo nella grande sala da pranzo del casale Subiaco di Nomadelfia è quasi ora di cena. Le 66 famiglie della comunità sono suddivise in 11 «nuclei familiari» distribuiti sui 120 ettari della tenuta. Ogni nucleo è formato da 3 o 4 coppie di coniugi con eventuali figli (naturali e affidatari) e alcune persone singole, per un totale variabile tra le 20 e le 35 persone, e dispone di un edificio centrale con la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno, la stireria e poi altre casette individuali dove ogni famiglia ha le camere per la notte. Poco prima di servire a tavola tutti si ritrovano davanti al tabernacolo che troneggia nella sala da pranzo: «È il momento spirituale più importante della giornata», spiega Roberto, incaricato di guidare la preghiera. Poi tutti si spostano a tavola. A un capo siede Elia, 35 anni, sposato con Veronica, 4 figli, responsabile di questo nucleo di 5 famiglie di cui fa parte anche don Nicola Cateni, un prete diocesano di Milano che ha ottenuto dal suo vescovo di poter svolgere il ministero qui per un paio d’anni. Questa sera tra i commensali c’è anche Zeno, un ragazzone di vent’anni con una folta barba rossa, figlio di una delle famiglie: è appena rientrato dal servizio civile internazionale in Ruanda e tutte le attenzioni sono per i suoi racconti. Come tutti gli adulti abili, Elia, il capo nucleo, lavora a Nomadelfia, dove coordina l’Onlus che in collaborazione con la Caritas di Grosseto ritira mobilio usato e lo rigenera nella falegnameria interna per poi donarlo ai poveri o usarlo in comunità. Elia non riceve denaro: il suo stipendio finisce nella cassa comune, come le pensioni degli anziani e i rimborsi dei Servizi sociali per i bambini in affido. 

«L’economia di Nomadelfia si basa prima di tutto sulla provvidenza», spiega il portavoce Giovanni, perché nessuno deve essere totalmente assorbito dal lavoro: «La nostra vita è in gran parte dedicata all’apostolato e alla solidarietà con chi è in difficoltà». Il lavoro si svolge in due cooperative: l’azienda agricola (120 bovini che forniscono il latte e carne, il caseificio, 12 ettari di viti che producono 300 ettolitri di vini bianchi e rossi, l’uliveto e il frantoio, l’officina per la manutenzione dei mezzi) e la cooperativa culturale (che gestisce le pubblicazioni, gli spettacoli itineranti messi in scena dai ragazzi, la scuola). «Ogni nucleo familiare coltiva un orto e ha un pollaio, gli altri prodotti alimentari li compriamo all’ingrosso dalla Coop Toscana. Ovviamente si mangia quello che c’è. E per i vestiti utilizziamo quasi esclusivamente indumenti usati. Auto e motorini sono a disposizione quando servono. Per le cure c’è un ambulatorio con medici, dentista e fisioterapisti».

Fondamentalmente Nomadelfia vuole essere un “mondo altro”. La Tv entra nelle case solo sotto forma di limitate trasmissioni via cavo valutate e, se il caso, censurate da una commissione. I minori non possono accedere a internet. Anche la scuola, per scelta, non fa parte del sistema pubblico nemmeno come scuola paritaria. Le lezioni, dalla materna alle superiori (obbligatorie fino a 18 anni), le svolgono i genitori secondo il metodo ideato da don Zeno e i ragazzi sostengono poi gli esami statali da privatisti.  

Qui il ruolo delle donne è ancora in bilico tra passato e presente. Quasi tutte lavorano anche fuori casa ma la maggior parte delle incombenze domestiche sono affidate a loro, mentre gli incarichi dirigenziali sono riservati agli uomini. A tutti è chiesta obbedienza alle decisioni dei responsabili: il presidente sceglie gli abbinamenti delle famiglie nei nuclei familiari, che ruotano ogni tre anni, è lui che decide in quali case inviare i bambini in affido e l’organizzazione del lavoro nelle attività produttive.

«Il nostro è un sistema di democrazia diretta», chiarisce Matterazzo, che è di nomina elettiva come anche la carica di «successore di don Zeno», cui competono gli indirizzi spirituali, attualmente ricoperta da don Ferdinando Neri, 85 anni, già missionario in Brasile e poi pro-vicario della diocesi di Siena. Ma ciò che sorprende è la regola dell’unanimità, «perché nessuna decisione deve essere divisiva, prima di tutto viene l’Ut unum sint pronunciato da Gesù che campeggia sopra tutti i nostri tabernacoli». In concreto significa che dopo il voto a maggioranza, l’assemblea rivota l’opzione vincente in modo che tutti possano sottoscriverla. Praticamente ogni questione viene decisa insieme, compreso il voto da dare alle elezioni politiche. Alle ultime consultazioni, dopo lungo dibattito, i “nomadelfi” sono arrivati al ballottaggio tra il Popolo della famiglia di Adinolfi e la lista Civica popolare della Lorenzin. Alla fine ha prevalso quest’ultima. «Ma sia chiaro», specifica il presidente, «non ci sentiamo rappresentati in pieno da nessuno. Anzi, l’attuale quadro politico è largamente deludente». 

Il cuore della proposta di Nomadelfia è l’accoglienza. Lungo uno sterrato che conduce alla collina più alta della tenuta, dove svetta una grande croce, incontriamo Carlo che, a dispetto dei suoi 85 anni, piccone alla mano, sta aggiustando  un canale di scolo. «La mia vita è andata in parallelo a quella di Nomadelfia». Lui è uno dei primi “figli” di don Zeno. «Quando arrivò Irene, pensai: “Finalmente anche io ho una mamma”. Poi partecipai all’occupazione di Fossoli e fui tra i primi a giungere qui a Grosseto». Rimasto celibe, Carlo ha donato tutta la sua vita a Nomadelfia, forse per restituire ciò che aveva ricevuto. Anche Ada, 79 anni, mamma di vocazione, è una delle figure storiche della comunità. «Ero cresciuta nell’Azione cattolica di Acqui Terme. Non sentivo come mia vocazione né il matrimonio né diventare suora e avevo oramai 27 anni. Arrivai nel 1966 dopo aver letto un libro di don Zeno e qui capii: “Voglio essere mamma per questi bambini”. E così è stato: ne ho accolti 15 e sono felice delle scelte che ho fatto. Oggi uno dei figli è tornato a vivere con me: ha 56 anni, è rimasto vedovo ed è gravemente malato. Nomadelfia torna a essere la sua casa». Oggi sono rimaste solo mamme di vocazione anziane, ma il testimone è stato egregiamente raccolto dagli sposi. 

«Ci facciamo conoscere con lo spettacolo itinerante Un annuncio di fraternità, la prossima estate saremo per un mese in Puglia. Poi ospitiamo ogni anno alcune migliaia di persone che si fermano con noi alcuni giorni», racconta Giovanni. Eppure, a differenza di altre esperienze ecclesiali coeve, Nomadelfia non si è mai espansa oltre il proprio recinto, salvo la presenza di un’unità familiare in un ex convento di Monte Mario a Roma. Probabilmente il perché lo spiegano le parole di mamma Ada: «La vocazione di Nomadelfia sembra facile, ma non lo è. Eppure è meravigliosa».

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