Cosa sappiamo degli esiti e della reale efficacia dell’affido? Pochissimo in Italia, ma la crisi di questo istituto è evidente: si pensi solo al numero di affidi “sine die” e al calo di famiglie che danno la disponibilità a questa forma d’accoglienza.
In Europa, nei Paesi che più hanno investito su questo strumento di accoglienza, solo un terzo degli affidi ha buoni esiti, con il rientro in famiglia, mentre negli altri casi, ben che vada, non ci sono miglioramenti nella condizione del minore. L’affido, non è pertanto la soluzione miracolosa, e magari a buon mercato per le esangui casse comunali, capace di risolvere tutti i problemi dei minori fuori famiglia. Ma è un istituto che va rivisto profondamente, definendone le sue diverse forme, in modo da modularle in base alle situazioni e ai bisogni del minore, investendo in professionalità degli operatori e percorsi di accompagnamento di genitori affidatari e ragazzi.
E’ uno dei punti fermi a cui è giunta la conferenza internazionale sulle “Forme dell’affido in Europa” svoltasi a Padova e organizzata dalla Fondazione Zancan, assieme alla Fondazione Paideia di Torino, l’International Foster Care Research Network (Ifcrn) e l’Associazione internazionale per la valutazione di esito sull’infanzia e la famiglia (IaOBERfcr).
«Guardare all’affido in Europa è come fare un viaggio nel tempo – afferma il direttore della Fondazione Zancan, Tiziano Vecchiato - Paesi come la Lituania, il Portogallo e la Croazia rappresentano in qualche modo una prima fase, l’affido come lotta alla istituzionalizzazione, caratterizzato da grandi speranze. Il nostro presente, invece, al pari di Germania e Francia, è quello di un Paese che si pone delle domande: è proprio così che vanno fatte le cose? L’affido ha mantenuto le sue promesse? Il futuro lo stanno prefigurando ad esempio Paesi Bassi, Svezia, Inghilterra, dopo aver condotto studi indipendenti. Mostrano che l’affido non è buono di per sé, dipende dai casi, dai problemi e da come vengono affrontati. Non è una soluzione per raddrizzare i bilanci degli enti pubblici. È un mezzo e non un fine, da usare con responsabilità, verificando i suoi esiti nel breve periodo e non solo dopo molti anni».
I dati evidenziano profonde disuguaglianze
In Italia a fine 2010 erano 29.309 i ragazzi fuori della famiglia (il 2,9 per mille della popolazione minorile complessiva). Ma i dati evidenziano profonde disuguaglianze. La prima è di carattere geografico: il tasso di allontanamenti varia notevolmente a seconda della regione considerata. La forbice è ampia e va dall’1,6 ogni mille bambini dell’Abruzzo a un massimo di 4,7 per mille della Liguria, con differenze piuttosto accentuate.
I dati medi sono del 3,1 per mille a Nord-Ovest, del 2,9 per mille a Nordest, del 3 per mille al Centro, del 1,6 per mille al Sud e del 3,5 per mille nelle Isole (fonte: Centro Nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza, 2013). «Queste differenze non sono spiegabili con bisogni di maggiore o minore intensità - precisa Vecchiato - ma ci parlano della maggiore o minore presenza di risorse e capacità professionali per affrontare i problemi presenti nei territori».
La seconda disuguaglianza è anagrafica ed esistenziale: con il crescere dell’età prevale l’accoglienza nelle comunità residenziali (82% tra i 14 e i 17 anni). Per i bambini tra 0 e 2 anni l’affido è messo in atto nel 73% dei casi, scendendo a quota 35% tra gli 11 e i 13 anni e arrivando al 18% tra i 14 e i 17 anni.
Per Vecchiato sono almeno due le spiegazioni: «Da un lato è evidente che se l’allontanamento necessario è rimandato (anche per incapacità e paura di decidere) il problema cresce, si cronicizza, rendendo necessari gli interventi dei magistrati. Tre affidi su quattro in Italia sono, infatti, di iniziativa giudiziaria. Ma molti affidi familiari tardivi falliscono. Le famiglie disponibili stanno diminuendo. Chiedono di non essere solo selezionate e formate ma soprattutto accompagnate e sostenute».
A commentare i dati è Cinzia Canali, ricercatrice della Fondazione Zancan: «I servizi non riescono a intervenire prima che la situazione sia tanto grave da rendere necessario l’intervento del giudice. È evidente dunque che la capacità dei servizi deve aumentare notevolmente».
Dal simposio è emersa, infine, la consapevolezza che il termine "affido" rappresenta solo un campo più generale di pratiche professionali per "affidarsi e accogliere" e che non è più possibile rimandare lo sforzo di classificare le forme di affido sperimentate.
Per Klaus Wolf, presidente dell'Ifcrn e docente all'Università di Siegen in Germania «l'affido è un grande risultato del superamento del ricovero in istituto, ma ci prospetta la necessità di affrontare le diverse accoglienze, fino anche alla professionalizzazione delle stesse. Gli spazi di innovazione sono considerevoli e dipendono soprattutto dalle capacità professionali di affrontare con coraggio le questioni proprie degli esiti delle scelte fondate su migliori evidenze. A partire dagli esiti sarà più facile capire perché le cose funzionano o non funzionano».