il corpo del piccolo Alan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum
Abbandonato in mare da 15 giorni. Il corpo senza vita di un migrante, incastrato tra i tubolari di un relitto di gommone semiaffondato. E’ quanto si vede nella foto pubblicata due settimane fa dalla Sea Watch su twitter. Il relitto era stato avvistato e fotografato dall’aereo della ong tedesca che aveva anche lanciato l’alert. Forse vittima di uno dei naufragi avvenuti davanti alle coste libiche al fine giugno. Ma, seppur riavvistato altre tre volte nei giorni successivi, nessuno nel frattempo, nè la guardia costiera libica, ne quelle italiana o maltese, ha fatto alcunché per recuperare l’imbarcazione e tirare a bordo il corpo per permetterne quantomeno una degna sepoltura.
Ora quella foto è diventata l’ennesimo simbolo di una tragedia immane, quella dei migranti in fuga dai loro Paesi d’origine per trovare un qualche futuro nel nostro continente. Cronaca ordinaria di un dramma che ha raggiunto ormai numeri da apocalisse e che non sembra esaurirsi, neanche davanti alle politiche dei “porti chiusi”, adottate con la pretestuosa giustificazione di voler abbattere proprio i numeri di questa strage. Nessuna rotta migratoria, via terra o via mare, come ci dicono i dati dell’Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, ha visto morire in cinque anni (dal 2014 al 2019) tanti esseri umani quanti quella dal Nord Africa verso le coste italiane, greche e spagnole: le persone inghiottite dal mare sono state complessivamente 19.164. Chi ha perso tutto, non si ferma certo davanti a un decreto ministeriale. Tutt’al più cambia lido, cambia rotta, ma non torna indietro. “L’Europa s’è abituata ad immagini di barche cariche di esseri umani che affondano e di persone che affogano. Noi no, per questo continuiamo a salvare vite”, denuncia la Sea Watch nella homepage del suo sito. E intanto l'Italia cosa fa? Rifinanzia il sostegno alla Libia, che significa anche all'organizzazione disumana dei lager dove vengono detenuti i migranti.
Chissà da quale inferno era fuggito quell’uomo finito su quel natante, chissà quale calvario aveva dovuto salire prima di imbarcarsi su uno dei tanti gommoni dei disperati. In genere, quando avviene un naufragio, è il Mediterraneo ad “occuparsi” della loro sepoltura, inghiottendoli nelle proprie profondità. Ogni tanto, però, per un gioco del destino, il cadavere resta in superficie, o finisce su un lido.
Una delle ultime volte che ci siamo commossi e indignati di fronte a immagini simili è accaduto cinque anni fa, davanti all’iconica fotografia del piccolo corpicino privo di vita di Alan Kurdi, siriano, di tre anni, spinto dalle onde sulla spiaggia turca di Bodrum, le braccia abbandonate lungo i fianchi e il volto riverso sulla sabbia. Qualcuno lo fotografò e il mondo si commosse. Ma, ancora una volta, non cambiò nulla. “La commozione, come osserva con ragione lo scrittore Fabio Geda, autore assieme a Enaiatollah Akbari di “Storia di un figlio”, dura solo 24 ore e non produce azione”.
Il piccolo Alan ebbe almeno una sepoltura. Quella che finora è stata negata all’anonima vittima galleggiante davanti alle coste libiche. “Nessuno vuole dargli sepoltura”: anche la Caritas ha alzato la protesta di fronte a quest’ultimo atto di insensibilità. Dare una tomba ai resti mortali rimane estremo gesto di pietà che sta iscritto nel dna della nostra cultura, fin da quando Antigone si oppose alla legge disumana del re di Tebe, lo zio Creonte, che voleva lasciare insepolto il corpo di Polinice, fratello della donna.
Tale disumanità è anche il risultato di scelte scellerate che hanno portato in questi ultimi anni a svuotare il Mediterraneo di navi umanitarie, ad allentare i soccorsi coordinati, in grado di intervenire tempestivamente per salvare vite o almeno recuperare corpi ormai esanimi.
Ora che i media hanno fatto il loro dovere pubblicando la foto “indecente”, qualcuno andrà forse a raccogliere quel cadavere seminudo. Nel frattempo il Mediterraneo sta già inghiottendo altri battelli col loro carico umano a bordo. Come l’imbarcazione alla deriva al largo di Malta che, poche ore fa, ha chiamato “alarm phone”. Pare senza aver ancora ricevuto risposta. I soccorsi non rispondono. L’Europa non risponde. Come fossimo diventati sordi. Ciechi. Privi di sensi: insensibili, appunto, di fronte a una gravissima crisi umanitaria. E quindi, a maggior ragione, totalmente inabili a governare il fenomeno più imponente del terzo millennio, quello migratorio. Quanti altri uomini in cerca di un’esistenza che sia degna di questo nome, moriranno prima di averla trovata, in poppa a un gommone sgonfio? E noi, magari, avremo anche smesso di commuoverci.