Con Il precipizio dell’amore (Mondadori) ha vinto la prima edizione del premio letterario “Pontremoli – Città del Libro e della Famiglia”. Mariangela Tarì è scrittrice al suo primo romanzo, ma soprattutto maestra e mamma di Sofia, 12 anni, affetta da sindrome di Rett «comunica solo con lo sguardo» e di Bruno, 10, colpito a cinque anni da un medulloblastoma al cervelletto «oggi in followup». Ecco perché ha dedicato questo premio, promosso dal Forum delle famiglie, ai caregiver familiari «non siamo e non vogliamo essere degli eroi, ma chiediamo solo finalmente una legge adeguata».
Ovvero? «Che da quella attuale, del 2017 quando per la prima volta è stato riconosciuta la figura del caregiver, spariscano le parole “titolo gratuito” e “volontario”. Ogni cosa che riguarda mia figlia richiede impegno e ha un costo superiore di almeno cinque volte a quel che serve in una famiglia normale. Servono almeno 3mila euro al mese per garantire una vita dignitosa a un figlio con disabilità considerando che il servizio sanitario passa ben poco e non considera né il gioco né le attività con gli altri, né i ricoveri e gli spostamenti, i farmaci aggiuntivi, gli ausili. La disabilità impoverisce; fa perdere il sonno (di notte la giriamo, curiamo le crisi epilettiche, camminiamo mentre tutti dormono). Ecco allora che chiediamo un’indennità dall’Inps per il ruolo di cura importantissimo che svogliamo e che fa risparmiare molti soldi allo Stato. Chiediamo dei contributi Inps perché ci sono familiari che perdono tutto alla morte dell’assistito compresa la pensione di invalidità». Cosa voglia dire assistere 24 ore al giorno una persona Mariangela lo sa bene: «anche se abbiamo una tata Barbara che sta sempre con noi un genitore - nella fattispecie io - si dedica al figlio rinunciando alla sua vita».
Il libro premiato
Per sostenere i caregiver familiari la soluzione c’è «liberarlo dalla burocrazia cieca che non aiuta; non c’è un gruppo di supporto, nemmeno l’assistente sociale più bravo sa dirti di cosa hai diritto. Lo scopri dalle mamme col passaparola e poi lo devi andare a chiedere. È tutto basato sulla capacità dei genitori di cercarsi le cose. Solo che c’è chi lo sa fare e chi no. E poi bisogna creare una rete efficace intorno alla famiglia del disabile a partire dalla scuola, una vera boccata di ossigeno. Una sanità più attenta alle malattie rare e degli spazi per noi: non lo psicologo, ma un supporto tale per cui tu possa decidere di andare a farti un giro anche, se vuoi, dallo psicologo. Siamo persone distinte dalla malattia dei nostri figli. Convivere con una disabilità grave è vivere perennemente in emergenza». E dopo di voi? «La malattia di Bruno ci ha radicati nel presente. Detto ciò, il dopo di noi si costruisce durante noi. Da subito, formando gli altri bambini, le altre famiglie, creando compassione; è un lavoro lungo di una comunità intera. Come esseri umani siamo connessi, abbiamo gli stessi sogni e la stessa fantasia. Non è possibile che in un palazzo non si conoscano i problemi degli altri. Allora a Sofia auguro di vivere e invecchiare nella sua casa circondata da una comunità accudente».