Il 2013 è stato l’anno del boom per il crowdfunding, la raccolta fondi collettiva sul web: solo nel periodo da aprile a ottobre le piattaforme che offrono questo servizio sono quasi raddoppiate. Nell’anno appena cominciato, poi, ne sono nate almeno altre quattro. Tra le ultime novità c’è anche la nascita delle prime due piattaforme “equity”, riservate agli investimenti di capitale in start up, conformi al recentissimo regolamento Consob in materia di crowdfunding. Molte altre sono in attesa di mettersi in regola, ma la normativa è abbastanza complessa. Anche le giovani cooperative sociali potrebbero trovare investitori in questo modo innovativo; purtroppo però queste imprese, in Italia, sono soggette a norme che rendono difficilissimo attrarre capitali privati. Le piattaforme in campo sono cresciute così in fretta che si teme ben presto una crisi da sovraffollamento, anche perché le organizzazioni beneficiarie del servizio, sono, invece, ancora troppo poche.
Crowdfunding infatti è una parola che fa scena, ma capire veramente come funziona è un’altra cosa. Il significato vero del termine non poi così roboante: in italiano, “colletta”, raccolta di soldi in un gruppo. Lo dice anche Wikipedia: “impegno collettivo degli individui, che mettono insieme i loro soldi, di solito attraverso internet, per sostenere iniziative di altri individui, o di organizzazioni”. Non è nata con il web, si faceva già mille anni fa con la raccolta delle offerte nelle chiese. Si fa nelle piazze con i banchetti solidali, dal panettiere con i salvadanai, con gli sms solidali dopo i terremoti o le alluvioni. Però il crowdfunding attraverso internet, secondo stime recenti, nel 2013 raccoglierà cinque miliardi di dollari, di cui oltre un terzo in Europa.
Dunque la novità c’è. Non è nemmeno nel web in se stesso, da tempo infatti molte organizzazioni non profit usano il sito per chiedere donazioni. La grande novità è un’altra: è la dimensione collettiva, o meglio condivisa, della richiesta di aiuto, non più solo dell’offerta, passatemi l’espressione un po’ bocconiana. Questo sì, senza il web sarebbe impossibile, e questa è la vera rivoluzione delle piattaforme di crowdfunding: la nascita di una “piazza virtuale” dove qualsiasi organizzazione, anche piccolissima, locale e oscura, può mettere in vetrina il suo progetto e chiedere sostegno alla comunità globale. E viceversa, ogni persona nel mondo con accesso a internet può conoscere i progetti di migliaia di organizzazioni. Il tutto, a costo zero, o irrisorio, per il progettista. Così inteso, il crowdfunding potrebbe diventare uno strumento di incredibile potenza per il terzo settore italiano. A patto di scegliere le piattaforme giuste: e qui arriviamo alla criticità del momento, perché sotto questa definizione anglosassone si nasconde veramente di tutto.
Donazioni, donazioni con ricompensa, prestiti, investimenti; cause sociali a volte un po’ vaghe, ma anche progetti profit di ogni genere: dalla realizzazione di un film all’apertura di un ristorante, fino al viaggio di un singolo individuo che – non si sa bene a quale titolo – vuole farselo pagare dagli altri. Fermo restando che tutti sono liberi di chiedere soldi in giro per realizzare un sogno, una confusione simile non giova a nessuno. «Ho paura che il crowdfunding possa diventare un modo per raccogliere soldi quando non riesci a farti finanziare da nessuno» fa notare Paola Pierri, consulente esperta di filantropia. «Sul web ci sono storie bellissime, ma anche progetti senza capo né coda, che nessun ente specializzato prenderebbe in considerazione. Le persone meno informate possono essere indotte facilmente a sprecare i loro soldi - non importa se sono pochi - su obiettivi di valore sociale nullo. Le piattaforme devono sì promuovere, ma anche selezionare con metodo i progetti: così il crowdfunding potrebbe diventare una scuola per le organizzazioni non profit e un importante motore di innovazione».
Naturalmente anche i fundraiser devono poter selezionare il servizio più adatto alle loro esigenze, in un contesto trasparente. Questo non è facile nella situazione italiana, che cambia di giorno in giorno ed è difficilissima da mettere a fuoco. Ci proviamo con l’aiuto della ricerca più recente disponibile per l’Italia, curata da Ivana Pais dell’ Università Cattolica e Daniela Castrataro di Twintangibles. La maggioranza – può stupire ma è così – non è a favore di cause sociali, ma imprenditoriali, o individuali; solo un’esigua minoranza è dedicata esclusivamente al non profit, e molte sono miste, a differenza di quanto accade all’estero dove le distinzioni sono più nette e trasparenti.