Antonio Iatarola oggi, con le foto dei giorni di Marcinelle. In copertina: Antonio con altri due minatori italiani, nella baracca della miniera. La foto è dei primi giorni di agosto, pochi giorni prima della tragedia.
«Non so dare una spiegazione, è andata così, mi sono salvato per la pignoleria di un funzionario belga». Antonio Iatarola ha 81 anni ed è un uomo arzillo, pieno di energie con una memoria invidiabile. Nato a Montaguto in provincia di Avellino, a 16 anni emigra in Francia per lavorare in agricoltura.
«Il mio sogno, in quegli anni, era il lavoro in miniera», dice, «un lavoro duro che aveva svolto anche mio padre, morto di silicosi a soli 53 anni». Arriva nei pressi di Nancy dove inizia a lavorare in una fattoria come mungitore, ma dopo alcuni anni i suoi occhi continuano a guardare verso altri orizzonti. «Si lavorava molto e la paga era buona», continua Iatarola, «ma le voci che circolavano tra noi immigrati, portavano i miei desideri verso le miniere del Belgio: Marcinelle e Charleroy erano i luoghi più gettonati. Sapevo che il lavoro sarebbe stato durissimo ma la paga era nettamente più alta che in agricoltura. Avevo 21 anni e lo spirito di tutti i giovani a quella età, ti fa sentire invincibile e immortale».
Un dato non trascurabile, stava anche nella possibilità di non avere limiti di trasferimento di denaro dal Belgio verso l’Italia, mentre dalla Francia potevi spedire solo il 25% del guadagnato mensile.
Primi di agosto nelle baracche di Marcinelle: i minatori si fanno la barba vicendevolmente.
«Mi licenziai dalla fattoria e mi diressi verso Marcinelle, adempiute tutte le pratiche alla gendarmeria francese, varcai il confine e mi presentai nei primissimi giorni di agosto alla miniera di Bois du Cazier per essere assunto. Dopo le visite mediche e un sopralluogo in miniera fino a quota ‒730 metri consegnai i miei documenti ai funzionari della miniera, mi fecero firmare il contratto e mi fu assegnato l’alloggio».
A ogni lavoratore era garantito un posto letto in baracche da 6 posti, con un piccolo angolo cucina. Si poteva capitare in baracche composte da italiani ma anche condividere gli stessi spazi con lavoratori provenienti da ogni parte d’Europa. «Finalmente», aggiunge Iatarola, «il mio desiderio si stava realizzando. Mi fu assegnato il compito di trivellatore (colui che fa i fori nella parete della miniera con una trivella a mano per collocarci la mina da far esplodere, ndr), ci fecero vedere la nostra attrezzatura: una trivella manuale (non elettrica né a percussione per evitare scintille), come elmo una specie di cappello di cuoio durissimo con sopra una luce a batteria e alcune tute da lavoro. Il tutto ci sarebbe stato consegnato la sera prima del nostro primo giorno di lavoro che era stato fissato per la mattina dell’8 agosto…».
Nei pochi giorni precedenti al tragico giorno, Antonio Iatarola ha modo di socializzare con i tanti italiani presenti a Bois du Cazier: «Si cercava di ricreare una comunità tra noi, ci si faceva la barba a vicenda, ci si aiutava in ogni modo cercando di metterci a nostro agio l’uno con l’altro, ci si incoraggiava, si mangiava insieme, e insieme si sognava una vita migliore; i più esperti cercavano di darti buoni consigli per le situazioni difficili». In quei momenti, un giovane e inesperto che si approccia per la prima volta a un lavoro così pericoloso, cerca di captare consigli utili con le orecchie e con gli occhi. A volte un buon consiglio ti può salvare la vita.
Antonio Iatarola e i compagni di baracca a cena.
«Mi dicevano di guardare sempre ciò che mi circondava», continua Iatarola. «Gli animali, anche in questo caso, sono i migliori amici dell’uomo. Dovevo tenere gli occhi sulla trivella ma anche alle gabbie degli uccellini (i primi a morire in presenza del tremendo gas grisu) o nel passaggio pedonale del tunnel di scavo; se vedevo dei topi correre verso l’entrata del tunnel, in senso contrario alla direzione di scavo, era consigliabile fuggire subito nella stessa direzione dei roditori».
Ma la storia ha parabole indecifrabili. «La sera del 7 agosto», racconta ancora Iatarola, «erano circa le otto di sera, ero in fila con gli altri per il ritiro della materiale personale. Quando arrivò il mio turno, mi dissero di farmi da parte, consegnarono il corredo da lavoro a tutti e successivamente mi presero in disparte. I funzionari della miniera mi contestarono un timbro della Gendarmeria francese, sul mio passaporto, solo parzialmente visibile. Non si leggevano tutti i numeri di una matricola della polizia di frontiera. “Lei è un clandestino!”, mi dissero. “Questo timbro è falso!”. Mi si gelò il sangue».
La rabbia e lo sgomento presero il sopravvento nel lavoratore italiano, che iniziò a protestare con vigore. «Mi sono licenziato dalla Francia per venire a lavorare qua, per un timbro stampato male mi escludete! Non è giusto, non sono un clandestino! Ma loro mi invitarono a tornare subito in Francia a regolarizzare la mia posizione, se avessi presentato un documento che attestasse il mio passato di regolare lavoratore, il posto in miniera mi sarebbe stato restituito».
Antonio fa in fretta i bagagli, saluta gli altri e si mette in marcia verso la Francia. «Era mezzanotte, ho attraversato il confine per ottenere un documento o timbro “intero” che mi permettesse di lavorare. Era l’8 agosto e in attesa che aprissero gli uffici della Gendarmeria mi fermai a fare colazione, a Maubeuge; mentre ero lì la padrona del locale, ascoltando la radio, ha iniziato a urlare che a Marcinelle c’era stata una tragedia e che molti italiani erano rimasti coinvolti (262 i morti di cui 134 italiani, ndr). Era il turno di lavoro da cui ero stato escluso».
Un primo piano di Antonio Iatarola oggi.
La disperazione e l’orrore presero il sopravvento, un insieme di sensazioni ed emozioni si intrecciarono in quegli attimi. «Ero disperato», conclude Iatarola, «per quelle giovani vite che avevo conosciuto in quei pochi giorni. Alcuni erano ancora minorenni. Nello stesso tempo, mi rendevo conto di essere scampato alla tragedia per un timbro stampato male. Lasciai subito la Francia, volevo allontanarmi il più possibile da quei luoghi, andai in Svizzera dove ripresi a fare il contadino».
Antonio Iatarola ha successivamente lavorato nelle acciaierie di Costanza e Francoforte, acquisendo anche piccoli ruoli di responsabilità, uno dei tanti italiani ignoti che hanno reso onore al nostro Paese, con il loro lavoro, in ogni parte del mondo.