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sabato 15 marzo 2025
 
Popoli perseguitati
 

Myanmar, non si ferma l'esodo dei rohingya

15/09/2017  Continua la fuga della minoranza musulmana di Myanmar. 400.000 persone son fuggite dalla repressione dei militari, mentre l'ONU denuncia la pulizia etnica. Sconcerto per il silenzio della leader birmana Aung San Suu Kyi

Arrivano notizie sempre più tragiche sulla sorte del popolo rohingya, la minoranza musulmana i cui diritti non vengono riconosciuti dal governo di Myanmar (ex Birmania). Un intero popolo è costretto alla fuga dalla repressione dell’esercito birmano. Amnesty International denuncia l’uso di mine antiuomo piazzate sulle vie di fuga dei rohingya, che stanno raggiungendo via terra e via mare il Bangladesh. Sempre Amnesty ha diffuso nuove prove della campagna di terra bruciata che l’esercito  birmano sta attuando nei confronti dei rohingya. “Le prove sono inconfutabili: le forze di sicurezza stanno dando alle fiamme lo stato di Rakhine in una campagna mirata a costringere i rohingya a lasciare il paese. Non c’è alcun dubbio: si tratta di pulizia etnica”, dichiara Tirana Hassan , direttrice di Amnesty International per le risposte alle crisi. Sarebbero già stati bruciati decine di villaggi e in molti casi i militari hanno aperto il fuoco sulle persone in fuga.

L’11 settembre Zeid Raad Al Hussein, Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU, ha dichiarato: “Poiché la Birmania non ammette indagini esterne, è impossibile avere un quadro completo della situazione, ma sembra che sia in corso un esempio da manuale di pulizia etnica”: Anche il portoghese Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, ha definito “catastrofica” la condizione della popolazione rohingya.

Sono già 400.000 i rohingya fuggiti verso il Bangladesh nelle ultime settimane. Quasi la metà della popolazione musulmana che abita la regione  di Rakhine. La regione, secondo il censimento del 2015, conta oltre 3 milioni di persone, ma un milione di persone non è stato censito perché facenti parti di una comunità, i rohingya, non riconosciuta dal governo. A Myanmar i rohingya sono considerati come degli immigrati illegali del Bangladesh, in pratica delle non persone prive di ogni diritto.

La grande fuga della  popolazione rohingya è cominciata tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre, in seguito all’azione repressiva dell’esercito birmano decisa dopo gli attacchi dei ribelli armati rohingya. Il 25 agosto il gruppo Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arcana (Asra), nato cinque anni fa per la difesa di diritti della minoranza, ha attaccato delle postazioni di polizia nella regione di Rakhine, uccidendo 12 poliziotti.

La risposta dell’esercito birmano è stata dura e immediata. La verifica delle informazioni sull’esodo e la repressione è difficile, perché Myanmar non ammette osservatori esterni. Purtroppo in rete circolano molte informazioni false. Come ha documentato una inchiesta di Le Monde, sono state diffuse foto di vittime che non hanno nulla a che fare con la popolazione rohingya. Alcune immagini, spacciate come documentazione della repressione in corso, in realtà si riferiscono a catastrofi avvenute in altre parti del mondo. Girano addirittura foto del 1994 e del 2004. La manipolazione delle immagini è praticata anche di chi si oppone ai rohingya. Circolano foto di templi buddisti distrutti  e bruciati dai “terroristi islamici rohingya”, mentre in realtà le immagini mostrano eventi accaduti tempo fa in Bangladesh.

La condanna della repressione è generale e particolarmente aspra da parte di nazioni a maggioranza musulmana (molte delle quali, a loro volta, non rispettano le minoranze presenti nel loro territorio). Il rischio è che la difesa dei musulmani di Myanmar diventi un nuovo cavallo di battaglia per i gruppi jihadisti attivi del su est asiatico. Al Qaeda ha minacciato che “il selvaggio trattamento riservato ai nostri fratelli musulmani non resterà impunito”. Appelli dello stesso tenore sono stati lanciati da altri gruppi fondamentalisti.

La catastrofe umanitaria del popolo rohingya ha messo sul banco di accusa Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, attivista per i diritti umani, dall’aprile del 2016 Consigliere di Stato della Birmania (in pratica, capo del governo) e ministro degli esteri. Aung San Suu Kyi, che fu premiata con il Nobel per la sua resistenza non violenta alla dittatura militare, non è intervenuta sulla catastrofe umanitaria dei rohingya  e il suo silenzio ha irritato altri personaggi di spicco premiati con il Nobel, come il Dalai Lama, il vescovo sudafricano Desmond Tutu e Malala Yousafzai. Il Dalai Lama ha detto che chi perseguita i rohingya “dovrebbe ricordare Buddha”, un’accusa molto pesante per la popolazione di Myanmar, in maggioranza buddhista. Una vignetta di Plantu sulla prima pagina di Le Monde ha raffigurato Aung San Suu Kyi con degli occhiali scuri, da cieca, che in uno studio di oculista resta inerte mentre le mostrano immagini delle persecuzioni dei rohingya.

Aung San Suu Kyi non ha il controllo dell’esercito e la gestione del potere a Myanmar si regge su equilibri molto fragili, tuttavia l’assordante silenzio sul genocidio dei rohingya sta macchiando la sua immagine in modo indelebile.

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L'esodo dei Rohingya in fuga dal Myanmar
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