«Il senso più profondo del viaggio», spiega il filosofo Silvano Petrosino, «sta nella sua drammaticità. Il viaggio è una grande metafora che ritroviamo in tutta la storia dell’umanità, nella tradizione religiosa, sapienziale, filosofica. L’uomo viene alla vita senza deciderlo, ma non diventa uomo senza deciderlo. L’essere umano non è un dato di natura già garantito e a posto, bisogna nascere ‒ o rinascere ‒ all’umanità. Molti di noi infatti non diventano mai uomini, restano bambini, con problemi di aggressività, superficialità, insoddisfazione. Altri diventano uomini, ma sempre dopo un percorso, fatto di libertà, di responsabilità, quindi di scelte e anche di fallimenti. Il viaggio assume una dimensione molto più drammatica rispetto alla caricatura che ne fa oggi la nostra società; quello io lo chiamo tour, ed è spinto solo dalla curiosità. Il viaggio è sempre un’uscita; è vero che Ulisse ritorna, ma ritorna cambiato, non è più lo stesso di quando era partito. Il tempo è passato, l’uomo è ferito. Il viaggio è una lotta che non ti lascia indifferente, ti lascia un segno. L’uomo cambia soprattutto a partire da una grande ferita e non è sempre detto che si tratti di un cambiamento positivo».
- C’è consapevolezza di questo processo?
«Non c’è nessuna garanzia che il cambiamento avvenga. Esso non è mai l’esito di un progetto, è l’effetto inaspettato di una storia. Se io inizio a prospettare il cambiamento, questo non avverrà. Prendiamo il pellegrinaggio. Uno può camminare per settimane, anche in ginocchio, e restare uguale a prima. Un viaggio non si organizza, basta pensare ad Ulisse. Ma anche Gesù, nel suo andare, viene continuamente intercettato da persone che lo fermano perché c’è qualcuno da guarire. Lui sta andando dritto per la sua strada ‒ quella della predicazione e del rapporto con il padre ‒ e qualcuno continuamente lo devia».
- La bibbia come si pone rispetto al viaggio?
«La cosa per me interessante nel testo biblico è che il viaggio è sempre verso una destinazione mai definita, sempre strana, ambigua, la terra promessa. Andare dove? Come? Dio dice: “Non ti preoccupare”. Mosè la vede da lontano, ma non la possederà mai. Questo è il punto. Nel possesso si riproduce il tour. Il viaggio è un movimento di pura uscita, non ti devi guardare indietro, vai fuori. Il dove te lo indicherò. Questo alimenta la dimensione di drammaticità, perché durante il viaggio può capitare di tutto verso una meta che non so neanche bene quale sia. L’uomo non può fare a meno di progettare, ma un vero uomo è colui che è libero dal suo progetto. Se faccio un incontro, se mi innamoro… accolgo quello che arriva. Dal punto di vista filosofico, per me è interessante distinguere l’evento dal fatto. Il fatto è fatto, l’evento accade. Questo a livello affettivo è meraviglioso. L’innamorarsi, come il viaggio, è sempre nell’ordine dell’evento».
- Se questo è il senso, ne consegue che per viaggiare non è necessario spostarsi fisicamente.
«Puoi viaggiare stando dove stai. Il viaggio implica uno spostamento dal “qui” al “là”, soltanto che si può fare del “là” un “qui” (tour), ma si può fare del “qui” un “là” (viaggio). E questa è un’esperienza pazzesca. Per esempio ha a che fare con la scelta monastica o di clausura. Perché la clausura è una chiusura intorno ad un’apertura. Il monaco non ha bisogno di andare, questo in tutte le esperienze di ascesi in tutte le religioni. Il mistico, ma anche l’uomo, è colui che vive nel “qui” con tutta l’apertura al “là". Kant è uno dei maggiori studiosi di geografia e non si è mai mosso. Per alcuni è sufficiente viaggiare con il pensiero e con il cuore, c’è chi invece ha proprio bisogno del viaggio del corpo, dell’andare, del toccare».
- Che cosa cerca l’uomo nel viaggio?
«Una persona si può mettere in moto, mossa da una ricerca di un’apertura, anche banale, di cambiare le cose. Non utilizzerei la parola felicità come esito del viaggio, bensì la parola compimento. Immagini una mamma che si alza alle due di notte perché il bambino è sporco e piange. Lei si alza, lo lava, gli dà da mangiare e lo rimette a letto. È stato faticoso, però adesso il bambino dorme tranquillo. La mamma è felice, ed è una felicità che non ha a che fare con il godimento, ma con un’esperienza di pienezza».
- Non possiamo non parlare delle migrazioni.
«In questo caso è chiaro che il viaggio è una costrizione, che ha sempre una doppia condizione: o è un fuggire da, o è un viaggio che ha inizio dall’essere attratti da. Non è sempre detto che il fuggire dei profughi si trasformi in un viaggio, che porti ad un cambiamento del loro modo di essere e di guardare. Io non so quanti facciano la riflessione che chi li accoglie non è solo un Occidente ricco, ma è anche un Occidente cristiano. L’ospitalità è qualcosa a cui siamo tenuti tutti, anche loro. Non solo noi dobbiamo ospitarli, ma anche loro ci devono ospitare. Questa fuga può non produrre nessun cambiamento; può produrre una rabbia incontenibile, e quindi aggressività; ma può anche generare bontà di cuore: siamo stati accolti, qualcuno ci ha dato da mangiare, ci ha coperto, cerca di darci un’istruzione. Il rischio è che cadano nella tentazione della vittima, che è una delle grandi tentazioni della psiche umana. Quando qualcuno si sente vittima è la fine, perché in genere il passo successivo è la vendetta».
- Com’è il suo viaggio personale?
«Vorrei arrivare alla fine della vita senza maledire la vita. Dopo aver preso delusioni, botte, bastonate, arrivi alla fine e ti chiedi se ne è valsa la pena. La figura di Gesù in croce da questo punto di vista è esplicita. Avrebbe avuto tutte le ragioni per maledire il padre. Era innocente e buono e ha fatto tutto quello che il padre gli ha chiesto. Se sulla croce avesse detto: “Lasciamo stare, mi sono scocciato”, l’avremmo compreso. Invece accetta la volontà del padre fino in fondo. Ed è qui che il centurione ha un cambiamento. A quel punto il viaggio è giunto a compimento, si compie con la pienezza dell’umanità. Ed è per questo che Gesù preferiva definirsi figlio dell’uomo».