«All’annuncio di questa tregua molti palestinesi erano increduli perché di “cessate il fuoco” falliti, in questi 50 giorni di guerra, ne avevano già visti troppi; tuttavia, c’era anche un sentimento di gioia e sollievo». Così Youssef Hamdouna, operatore umanitario palestinese, racconta il clima a Gaza all’indomani dell’accordo firmato al Cairo tra palestinesi e israeliani.
Aggiunge Gigi Bisceglia del Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), l’Ong del network salesiano: «Dopo la prima notte senza bombardamenti, chi ha potuto è finalmente rientrato nelle proprie case, speriamo che presto i bambini possano tornare a scuola, che sarebbe dovuta iniziare lunedì». Sembra che la Striscia tenti di tornare a una vita normale: le banche riaprono, i mercati sono affollati, gli operai cominciano a riparare le linee elettriche saltate e i bulldozer liberano le strade dalle macerie. Ma la vita non può tornare facilmente alla normalità dopo che, per i bombardamenti israeliani e le operazioni di terra di “Barriera Protettiva”, hanno perso la vita 2.143 palestinesi, la stragrande maggioranza civili di cui almeno un quarto bambini, mentre i feriti censiti sono 11 mila. Sul versante israeliano i morti sono stati 70, di cui 64 militari, e 37 feriti.
Nella Striscia, in una delle aree più sovraffollate al mondo, l’Agenzia dell’Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha) ha registrato 475 mila sfollati e 55 mila case private colpite dai raid, di cui 17.200 sono state totalmente distrutte. Acqua potabile ed energia elettrica, oltre a cibo e medicinali, sono le emergenze immediate.
All’inizio di settembre sarà convocata una conferenza degli Stati donatori, che, per l’ennesima volta, finanzierà la ricostruzione.
Ma cosa prevede l’accordo raggiunto tra Israele e Hamas? Di fatto, si ritorna alle condizioni del precedente cessate il fuoco, quello del novembre 2012. Oltre alla fine delle operazioni militari di Tel Aviv e del lancio di razzi di Hamas, Israele accetta di «attenuare» – non eliminare – le condizioni del blocco della Striscia, permettendo di far entrare aiuti umanitari vitali, e di estendere da 3 a 6 miglia nautiche dalla costa la possibilità di pesca per i palestinesi. In un accordo separato, l’Egitto si impegna a riaprire 14 km del valico di Rafah, fondamentale per far entrare nella Striscia tutto ciò di cui c’è bisogno; inoltre, Israele ed Egitto chiedono al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas di assumere la responsabilità dell’amministrazione delle frontiere di Gaza, finora controllata da Hamas.
Yousef Hamdouna, cooperante palestinese a Gaza (Foto Scalettari). In copertina: le conseguenze delle bombe su una casa della Striscia (Foto Reuter)
Vengono invece rimandati a future trattative, qualora la tregua dovesse reggere, i temi più spinosi: la richiesta di Hamas di costruire un porto e di ricostruire l’aeroporto a Gaza, il rilascio dei prigionieri e lo sblocco dei fondi per gli stipendi di 40 mila dipendenti pubblici.
Ovviamente entrambe le parti hanno sostenuto di aver vinto. «Dalla notte, i palestinesi sono scesi in piazza a festeggiare nella Striscia, ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est», racconta Gigi Bisceglia. Hamas si è affrettata a definire la tregua una «vittoria» ed effettivamente la sua capacità di resistenza ha colpito alcuni analisti.
Al di là dei proclami, però, molte delle sue condizioni iniziali non sono state prese in considerazione e la situazione è tornata la stessa di due anni fa, al caro prezzo di oltre 2.000 vittime, mentre alla sua immagine non hanno giovato le 18 esecuzioni pubbliche eseguite la settimana scorsa contro dei sospetti collaborazionisti. Rimangono poi forti dubbi sulla ricomposizione tra Hamas e Fatah.
Quanto a Israele, al prezzo di un numero di vittime tra i propri soldati mai così alto dalla guerra contro Hezbollah del 2006, può affermare di aver raggiunto in parte l’obiettivo principale della campagna, la distruzione dei tunnel che entravano nel territorio israeliano. Ha anche ottenuto un sensibile ridimensionamento dell’arsenale di Hamas, che, tuttavia, seppur indebolito, rimane una potenziale minaccia ai propri confini.
Dopo 2.206 vittime, quindi, tra i due contendenti nessuno esce realmente vincitore. Lo ha detto anche il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon: mentre gioiva per la tregua, ci ha tenuto a precisare che, senza ulteriori passi per risolvere le vere cause del conflitto, il cessate il fuoco sarà solo uno stato transitorio verso nuove violenze. Chi invece esce rafforzato dalla crisi è l’Egitto dei militari di al-Sisi, che, nonostante lo scetticismo circa la sua possibilità di fungere da mediatore, si è confermato ancora una volta come il facilitatore principale del dialogo tra israeliani e palestinesi.