«Non
mi dimetto, lo rifarei»,
ha detto Annamaria Cancellieri rispondendo a chi l’accusava di aver
chiamato i vicedirettori del Dipartimento amministrazione
penitenziaria (Dap) per segnalare le condizioni di Giulia Ligresti,
arrestata a metà luglio insieme al padre e alla sorella (un fratello
è latitante). Si è trattato di un «intervento
umanitario»,
secondo la Guardasigilli, che ha rivendicato di averne fatti altri
110 analoghi: «Se
Giulia si fosse uccisa, e io ero al corrente delle sue condizioni di
ragazza anoressica, che non mangiava da una settimana, in pericolo di
vita, non sarei stata forse responsabile della sua morte, della morte
di una madre con dei bambini?».
Il
vicecapo del Dap, Cascini, uno dei destinatari delle telefonate, ha
spiegato che spesso dalla Guardasigilli, che «da
quando s’è insediata, s’è dedicata con particolare attenzione
ai problemi del carcere»,
arrivano segnalazioni di casi particolari. Anche Ilaria Cucchi l’ha
difesa sottolineando la partecipazione al dolore per la morte di suo
fratello e di Giuseppe Uva.
Altri
invece hanno attaccato il ministro per il presunto trattamento di
favore e per l’amicizia con una delle famiglie più chiacchierate
d’Italia. In particolare, per la “telefonata di solidarietà”
alla sua “buona amica” Gabriella Fragni (compagna di Salvatore
Ligresti, padre di Giulia) e per il rapporto di lavoro tra il figlio
del ministro e Fonsai, la compagnia assicurativa dei Ligresti,
terminato nel 2012 dopo 14 mesi con una buonuscita di 3,6 milioni di
euro.
Non
è mancata la bufera politica: il Movimento 5 Stelle ha presentato
una mozione di sfiducia, il Pd ha chiesto che riferisca in Aula e il
Pdl l’ha difesa. Letta si è detto sicuro: la Guardasigilli
chiarirà ogni dubbio in Parlamento.
Nel
frattempo, a fine agosto, Giulia ha lasciato il carcere di Torino,
perché, prima dell’interessamento del ministro, la Procura aveva
già disposto un accertamento medico. La scarcerazione era stata in
un primo tempo respinta dal Gip, che l’aveva poi convalidata
soltanto dopo il patteggiamento della donna.
La
polemica di questi giorni ruota attorno ai detenuti di serie A e B:
“Non tutti i parenti possono telefonare al ministro”, si è
detto. Infatti, nelle prigioni italiane che Lucia
Castellano, ex direttrice del carcere modello di Bollate, ha definito
“cimitero dei vivi”, muoiono
in media 150 persone l’anno, oltre un terzo delle quali per
suicidio, spesso nell’anonimato. Morti che in alcuni casi
potrebbero essere evitabili.
Il 15 ottobre, a Rebibbia, è morto
Sergio Caccianti, di 82 anni: aveva gravi patologie ed era stato
recentemente colpito da un ictus, ma il Tribunale di Sorveglianza
aveva rigettato la richiesta di differimento della pena per motivi di
salute. A fine agosto, Walter Luigi Mariani, 58 anni, paraplegico a
seguito di un’ischemia, è morto carbonizzato nell’incendio della
sua cella a Opera, non si sa se per incidente o suicidio.
Un intervento
sicuramente “umanitario” sarebbe quello di occuparsi del cronico
sovraffollamento delle carceri italiane.
A
Taranto, per esempio, 4 detenuti si affollano in 9 metri quadrati.
Anche la
Corte Europea dei
Diritti umani ha condannato l'Italia per aver detenuto persone in
meno di tre metri quadri: tortura e trattamento inumano e degradante
secondo l’articolo 3 della Convenzione Europea.
Dal 1990 ad oggi, la popolazione
carceraria è più che raddoppiata, passando da 25 mila a oltre 67
mila persone, il
21,1% (14mila) dei quali è ancora in attesa di giudizio. Un altro
dato dovrebbe far riflettere: il
36% è detenuto per violazione della legge Fini-Giovanardi sulle
droghe.
Anche le condizioni delle strutture
sono preoccupanti: lo scorso inverno, a Catania
i termosifoni restavano spenti, mentre a Messina
– rileva l’Associazione Antigone – «per
stare in piedi, bisogna fare i turni».
Nella sezione femminile, dove vive anche una bambina di tre anni, «le
celle e i corridoi presentano crepe sui muri, intonaco scrostato,
gelosie di vetro alle finestre, muffa e umidità nei bagni. Le docce
sono in comune e l'acqua calda nelle celle non è disponibile: le
detenute lamentano di doversi lavare con le bottiglie».
Ma non tutti possono telefonare al
Ministro. E di questi altri, che ne facciamo?