L'immensa folla che ha accompagnato il corteo funebre di Giulio Regeni.
La vera notizia stava a Fiumicello non a Sanremo. La colata mediatica “festivaliera” ha rischiato di affogare quanto accadeva dall’altra parte del nord Italia, in una anonima palestra di un paesino della Bassa Friulana, Fiumicello, appunto, località mai sentita nominare, prima che uno dei suoi giovani figli venisse ammazzato così barbaramente in un’altra terra, distante migliaia di miglia. Le leggi nostrane dell’informazione, d’altra parte, lo prevedevano: anzitutto l’evento “nazionalpopolare”, tutto il resto nelle pagine interne, compresi i funerali di un ricercatore di 28 anni, ammazzato, in circostanze ancora misteriose, dopo sevizie e torture. "E’ la stampa, bellezza!", per citare il noto film del 1951.
Eppure laggiù, nel profondo Nord-est, ieri, dentro una mattina sferzata dal gelo, in una terra da sempre discreta e poco propensa al chiasso, ma che ha aperto generosamente case e appartamenti per ospitare i “foresti”, è accaduto qualcosa d’importante, di raro a vedersi, di prezioso da conservare. Una folla venuta da ogni dove s’è raccolta per dare l’ultimo saluto a Giulio Regeni. In migliaia sono arrivati, senza vessilli, né bandiere di partito (e già questa è una notizia). Niente esequie di Stato (altra notizia). In breve hanno colmato, come mai accaduto prima, la piccola piazza del paese. C’erano i concittadini del ricercatore, gli amici d’infanzia, i vecchi compagni di scuola; c’era Ivan, l’amico pittore, c’erano operai e contadini, commesse e disoccupati di Fiumicello; sindaci friulani senza fasce tricolori, e giovani universitari senza slogan barricadieri; insieme, mescolati gli uni gli altri, stavano ricercatori e docenti italiani; professori di Cambridge, colleghi e amici israeliani ed egiziani e chissà di quali altre parti.
In memoria di Giulio.
Nella terra in cui la lingua ufficiale è il “furlan”, s’è celebrato il funerale in italiano e in inglese, e a concelebrare assieme al parroco don Luigi, che ha da subito definito Giulio un “martire”, c’era il padre copto Mamdua, dal Cairo, che ha pronunciato parole altrettanto forti: “Giulio è il capro espiatorio che libera un Barabba sconosciuto”.
A Fiumicello c’era un melting-pot silenzioso che ha raccolto spontaneamente un pezzo dell’Italia migliore. Quell’Italia che ha sentito il dovere di testimoniare la vicinanza e il cordoglio ai genitori straziati per la perdita del figlio; quel figlio, come ha detto mamma Paola, che le “ha insegnato la comprensione e la tolleranza”.
C’era quell’Italia che ha voluto testimoniare la rabbia composta per la vita spezzata di un giovane intellettuale che credeva in un mondo migliore e nel riscatto degli ultimi. Un brillante intellettuale che amava Borsellino e Gramsci, che leggeva Pasolini e Rilke. Giulio ha sempre creduto che la ricerca e lo studio possano contribuire a disegnare società più giuste e libere. Questa era la sua vocazione laica. E quasi certamente per questo è stato ammazzato e poi gettato sul ciglio di una strada. E la grande folla dolente di Fiumicello ha voluto dire al mondo che l’ultima “lezione” del giovane ricercatore, perché non sia vana, si deve mandare a memoria. Ecco perché la vera notizia non stava all’Ariston, ma in quella palestra.
Faceva il ricercatore Giulio. Un ricercatore, anzitutto è ricercatore di verità, magari nascoste, celate, pericolose. Così è stato. Se non si vuole perdere il testamento spirituale che ha lasciato questo ragazzo innamorato della ricerca coraggiosa, si faccia il possibile e l’impossibile, per far luce nel buco nero della sua tortura e morte.