A quattro anni dalla sua elezione papa Francesco piace a 7 americani su 10. Molto ai cattolici (87%), abbastanza ai protestanti mainline, ovvero tradizionali (72%), un po’ meno ai cosiddetti “evangelici”, cioè membri delle tante Chiese indipendenti basate sull’interpretazione letterale, messianica e millenaristica della Bibbia (53%). Solo tra questi ultimi il gradimento del Santo Padre è leggermente calato (nel marzo 2013 era al 59%).
Presso tutti gli altri gruppi, invece, più Jorge Mario Bergoglio diventava un household name, un nome familiare, più aumentava la sua popolarità. In particolare tra gli agnostici, atei e non religiosi (dal 39% al 71%). E più in generale, passando in 4 anni dal 57 a oltre il 70% di “favorevoli”, Pope Francis, come lo chiamano, qui ha conquistato una bella fetta di consensi, specie tra i tanti americani che non lo conoscevano affatto. Oggi soltanto uno su 10 dice di non saperne abbastanza per dare un giudizio. Ne rimangono due (il 19% per l’esattezza) che di papa Francesco proprio innamorati non sono. Anzi, «esprimono un’opinione sfavorevole», per usare le parole del Pew Research Center, il prestigioso istituto privato di statistica di Washington, autore, lo scorso gennaio, dello studio su cui si basano tutti i numeri fin qui elencati.
Numeri positivi, certo, tuttavia insufficienti a raccontare da soli le tensioni interne al mondo cattolico americano: la doppia fedeltà, in bilico tra Vaticano e Washington con cui da sempre i cattolici Usa devono fare i conti (cosa che fin dai tempi di Kennedy i non cattolici non mancano di sottolineare), oggi, dopo l’elezione di Donald Trump, diventa una sorta di schizofrenia ideologica in cui molti, specie i più conservatori, si sentono Guelfi e Ghibellini al tempo stesso.
Ma sulle questioni etiche non si può essere sia l’uno sia l’altro: e se un anno e mezzo fa gli appelli di Bergoglio all’accompagnamento di divorziati, coppie di fatto e omosessuali avevano fatto arricciare il naso a parecchi porporati americani, come l’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan, e l’attuale presidente della Conferenza episcopale Usa, il cardinale Daniel DiNardo, oggi quegli stessi princìpi applicati a migranti e rifugiati cozzano in maniera inconciliabile contro l’intransigenza xenofoba e isolazionista del neoinquilino della Casa Bianca.
Sull’argomento erano già volate scintille tra il Papa e il presidente, anzi, all’epoca il candidato Trump, quando all’esortazione del primo («I veri cristiani costruiscono ponti, non muri»), il secondo aveva praticamente risposto di farsi gli affari suoi. Ora i due si trovano d’accordo sulla necessità di far di tutto per evitare gli aborti (su cui tra l’altro Trump cambiò idea una ventina di anni fa).
Dunque è legittimo interpretare il sostegno accordato dal cardinale Raymond Burke al presidente, definendo la sua elezione «il risveglio da una crisi morale» come una critica al Papa e, al contrario, leggere le accuse mosse a Trump dal cardinale Joseph Tobin, arcivescovo di Newark, New Jersey, che parla di «politiche inumane e atti irrazionali», come un’implicita presa di posizione a favore di Bergoglio.
In una situazione così, tuttavia, anche i silenzi vanno interpretati. Diplomaticamente equidistanti quelli del rassicurante Dolan e dell’ormai istituzionale DiNardo, probabilmente entrambi preoccupati di alienarsi, in un caso o nell’altro, fette consistenti di fedeli. Silenzio-assenso invece quello dello schivo e misurato cardinale Sean O’Malley: e non potrebbe essere altrimenti alla luce degli incarichi di fiducia ricoperti dall’arcivescovo francescano di Boston (presidente della Commissione antipedofilia, membro della Congregazione per la dottrina della fede e parte del C9, il Consiglio che affianca Bergoglio nella riforma della Curia).
Accontentare tutti non è possibile: né per un Papa né per un presidente. Nessun politico, in ogni caso, riuscirà mai a ottenere dopo quattro anni di mandato il gradimento del 70% della nazione e l’87% del proprio partito. Un esempio? Dopo quattro settimane Trump non arriva al 50%.