Sarà difficile trovare un
successore del livello di
Giorgio Napolitano, anzi,
in un certo senso sarà
impossibile. Le ragioni
sono molteplici: la statura
politica e istituzionale
dimostrata, il ruolo eccezionale
svolto nel corso di due mandati
(tali da avergli fatto guadagnare
l’appellativo di “re Giorgio”), la particolarità
del momento storico in cui
ha saputo rendere il Quirinale un faro
per un Paese smarrito e una bussola
per un Parlamento paralizzato.
Ci sono stati almeno due momenti
cruciali, in questi lunghi e tormentati
nove anni, in cui l’uomo del Colle ha fatto da supplenza alla palude politica,
fino ai limiti estremi delle prerogative
previste dalla Costituzione. Il primo
è stato nel novembre del 2011,
quando l’Italia era diventata preda
della speculazione finanziaria internazionale,
finendo sull’orlo della
bancarotta. In quei frangenti Napolitano
nominò senatore a vita Mario
Monti (una sorta di inedita investitura
presidenziale) e gli conferì l’incarico
di capo di un Governo di tecnici che
in qualche modo domò la tempesta
(con sacrifici enormi degli italiani). Il
secondo momento nel segno dell’eccezionalità
è avvenuto con la sua rielezione
“non cercata e non voluta” al
Quirinale, unico punto di equilibrio possibile tra i partiti, incapaci
di trovare un successore. Certa stampa
di destra, oltre a quella filogrillina, ha
addirittura gridato al “golpe”, ma di
uno strano golpista si tratterebbe, se
è vero come è vero che dopo il trionfo
di Matteo Renzi alle primarie del Pd
Napolitano non ha esitato (tra i mal
di pancia dell’ormai minoranza del
partito, quella postcomunista da cui
proveniva e con cui aveva mantenuto
i legami di una vita) ad affidargli il
nuovo incarico di Governo al posto di
Enrico Letta.
Nel fare il bilancio del suo “novennato”
gli storici dovranno certamente
tener conto anche del fatto che l’ex
comunista riformista, l’ex senatore a
vita nominato undicesimo presidente
della Repubblica, ha portato avanti la
missione di coesione nazionale avviata
dal suo predecessore Carlo Azeglio
Ciampi. La decisione delle dimissioni,
pare maturata da oltre un anno, è
stata presa senza indugi. L’inquilino
del Quirinale si sentiva sempre più
inquilino pro tempore.
Gli abiti erano
rimasti a casa e la sua biblioteca di tremila
volumi era già stata trasferita a
Palazzo San Macuto, dove conservano
lo studio i senatori a vita. La decisione
era stata comunicata a papa Francesco,
il Pontefice che Napolitano considera una guida morale per sé e per il Paese
e con cui ha instaurato un rapporto di
stima e amicizia. L’anziano presidente
si è rivolto agli italiani, nel suo
ultimo messaggio di fine anno da
capo dello Stato, con parole semplici
e dirette, per annunciare le sue
dimissioni. L’affaticamento dovuto
all’età non consente dilazioni. «L’Italia
», ha spiegato, «dovrà avere la maturità
di eleggere un nuovo presidente
perché non può permettersi di averne
uno di novant’anni».
Ha citato il percorso
delle riforme del Paese ormai
avviato: il superamento del bicameralismo
paritario, la legge elettorale, il
rapporto tra Stato e Regioni, ma anche
le riforme sociali, di cui l’Italia ha più
bisogno, come quella sul lavoro (l’assillo
del vecchio presidente per la disoccupazione
giovanile è palpabile per
chi gli sta vicino) e sulla pubblica amministrazione.
E ha stigmatizzato,
prendendo spunto dall’inchiesta
della Procura di Roma su Mafia Capitale
e sulle varie inchieste di corruzione,
gli italiani “indegni”, contrapponendoli
agli italiani “esemplari”. Il
messaggio è stato anche una sorta di
viatico diretto al suo successore, il cui
compito, prima degli altri, sarà proprio
quello di portare a compimento le riforme:
«Il percorso va, senza battute di
arresto, portato a piena conclusione».
Il profilo del nuovo inquilino del
Colle sta emergendo con nettezza, almeno
nelle sue caratteristiche, giorno
dopo giorno: dovrà essere un politico
di alto profilo, con una conoscenza approfondita
della macchina dello Stato
ma anche delle dinamiche dei partiti
e delle istituzioni, oltre che avere una
competenza di quel che avviene a livello
sociale ed economico.
Inoltre,
nel tradizionale avvicendamento al
Colle (non sempre rispettato, come
nel caso di Ciampi e Napolitano) toccherebbe
a un cattolico, figura vista
con sempre maggiore interesse. Sembra
il ritratto di Romano Prodi, con
cui il premier Matteo Renzi, che ha il
ruolo di “dare le carte” nella prossima partita del Quirinale, si è intrattenuto
in un lungo colloquio prima di Natale.
Ma la sua elezione è tutt’altro che
scontata.
Prodi è stato l’avversario diretto
di Berlusconi (l’unico che lo ha
sconfitto durante il suo ventennio)
e su di lui il Cavaliere, il cui ruolo è
quello di vagliare le proposte di Renzi,
ha sempre posto il veto. Inoltre, visto
che in Parlamento siedono gli stessi
deputati e senatori che hanno partecipato
all’ultima elezione, compresi
i famigerati “101” grandi elettori del
Partito democratico che hanno tradito
Bersani (e dietro i quali si cela
l’ombra di Massimo D’Alema), perché
dovrebbero cambiare idea su Romano
Prodi? Ecco perché i giochi sono
quanto mai aperti nella corsa alla
successione di “re Giorgio”.