Papa Francesco all'inagurazione dell'anno giudiziario della Sacra Rota, il 23 gennaio 2015. Le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia Reuters.
E’ la terza riforma del processo canonico matrimoniale. Prima di papa Francesco c’era stata quella di Benedetto XIV nel 1741 e quella di Pio X nel 1908. Ma quella di oggi si può definire “storica”, come ha osservato monsignor Pio Vito Pinto, decano della Rota Romana e presidente della speciale commissione voluta da Bergoglio un anno per riformare il Codex, nella conferenza stampa in Vaticano. Benedetto XIV, papa Lambertini, sommo giurista, consolidò il sistema dello scioglimento pontificio “pro gratia” del vincolo “rato e non consumato” (ovvero del matrimonio in cui i coniugi, pur regolarmente sposati, non hanno rapporti sessuali) e poi inserì la necessità della "doppia sentenza conforme" per contrastare gli abusi commessi dai vescovi e dai tribunali, soprattutto in Polonia, norma che ora papa Francesco ha abolito. Pio X confermò in sostanza i principi di Lambertini, ma stabilì che i processi canonici devono essere preferibilmente celebrati nelle diocesi, limitando il ricorso e gli appelli alla Santa Sede.
Bergoglio coglie le indicazioni di Pio X e le inserisce nel quadro teologico e normativo del Vaticano II, sottolineando il ruolo del vescovo e quello delle Chiese locali. In sostanza si tratta di una riforma che trova il suo significato e il suo fondamento nel Concilio. Una raccomandazione in tal senso era stata espressa dal Sinodo dei vescovi del 2005, quello dedicato all’ “Eucarestia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”, che nelle preposizioni finali, al numero 40, chiedeva di “approfondire ulteriormente gli elementi essenziali per la validità del matrimonio, anche tenendo conto dei problemi emergenti dal contesto di profonda trasformazione antropologica del nostro tempo”.
Il punto centrale della riforma, con norme più precise e una procedura più breve, è la sottolineatura che per il matrimonio cristiano, anzi per il sacramento del matrimonio cristiano, occorre la fede. Già Joseph Ratzinger, da cardinale, nell’Introduzione alla istruzione della Congregazione della dottrina della fede sulla pastorale dei divorziati risposati del 1998, aveva osservato che “si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramento”. E diventato papa Benedetto XVI Ratzinger ha sollevato più volte la questione. La stessa cosa ha fatto in diverse occasioni Bergoglio. Ora arrivano i due “motu proprio” e monsignor Pio Vito Pinto sull’Osservatore Romano di mercoledì 9 settembre osserva che “ora non è più tempo delle analisi, ma quello di agire con giustizia e misericordia”. E aggiunge che è il tempo di passare “dal ristretto numero di poche migliaia di nullità a quello smisurato di infelici che potrebbero avere la dichiarazione di nullità, per l’evidente assenza di fede come ponte verso la conoscenza e quindi la libera volontà di dare il consenso sacramentale, ma sono lasciati fuori dal vigente sistema”. Infatti tra le fattispecie per dichiarare la nullità nel processo breve, c’è la “mancanza di fede”.
Pinto non esclude che vi siano “resistenze” e ammette che “non sarà facile implementare questo nuovo sistema procedurale”: “La comunione e la collegialità richieste dal nuovo processo avranno bisogno di tempo per lo studio e la formazione”. Papa Francesco ha indicato tuttavia la strada della misericordia al cui centro c’è il vescovo diocesano o l’eparca per le Chiese di rito orientali. Dovranno riconoscersi più responsabili non solo della dottrina, ma anche della giustizia e della misericordia, per i propri fedeli. Il tema della misericordia è stato sottolineato, nella presentazione alla stampa, anche dall’Esarca apostolico di Atene, cioè il vescovo cattolico, monsignor Dimitrios Salacas: “A quanto mi risulta è la prima volta che in un documento pontificio di indole giuridica si ricorre a questo principio patristico di misericordia pastorale per affrontare un problema come quello della dichiarazione di nullità del matrimonio”. Questa è alla fine la novità più grande insieme al ruolo del vescovo come giudice e non è una faccenda solo procedurale.
Sarà molto interessante vedere come inciderà questa riforma nel dibattito al Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia previsto per ottobre. Molti padri sinodali l’anno scorso al Sinodo straordinario avevano sottolineato la necessità di snellire le cause e di riconoscere il fallimento per fede. E questa è anche la posizione del papa emerito Benedetto XVI. E’ evidente infatti che se molti più matrimoni venissero dichiarati nulli verrebbe disinnescato in buona parte il dibattito sulla questione della comunione ai divorziati risposati, che è sempre molto aspro e polemico.
Ma c’è anche un'altra questione, sollevata dal cardinale Coccopalmerio, presidente della Pontificio Consiglio per i testi legislativi alla presentazione dei due “motu proprio” e cioè che le nuove norme impongono un aggiornamento e un’integrazione dei canoni del Codex relativi alla famiglia: “Il Codice latino dovrebbe dare spazio non solo al sacramento del matrimonio, bensì anche alla famiglia, alla sua identità, alla sua soggettività e alla sua missione”. Coccopalmerio si riferisce non solo alla famiglia tradizionale, ma anche al “problema delle nuove normative civili relative a matrimonio e famiglia spesso incompatibili con la dottrina e la disciplina della Chiesa, però di fatto esistenti”, che vengono “inevitabilmente ad avere un impatto sull’ordinamento”. E fa un esempio: “Un solo caso, tra i più semplici; nelle legislazioni in cui le coppie omosessuali possono adottare, se una coppia omosessuale vuole battezzare il bambino, come si deve provvedere? Come, per esempio, si registra il battesimo?”. Sarà sicuramente argomento, tra gli altri, del prossimo Sinodo.