Prendendo spunto da alcune lettere mandate dai lettori, ecco alcune puntualizzazioni su quanto già scritto a proposito della nuova traduzione del Padre nostro, entrata in uso ufficialmente nella liturgia a partire dalla prima domenica di Avvento. I traduttori, in passato come nel presente, fatte le debite proporzioni, hanno sempre cercato di tradurre dall’ebraico in greco, e dal greco in latino, fedeli alla lettera, ma anche per esprimere correttamente il concetto secondo il lessico della lingua diversa e tenendo presente il contesto culturale, con la consapevolezza che tradurre è inevitabilmente anche un po’ tradire.
Pensiamo, per esempio, ai termini “peccato” e “conversione” in ebraico, in greco e in latino... con la ricchezza delle sfumature proprie di ciascuna di queste lingue e poi nelle nostre traduzioni. Ho usato, a proposito della precedente traduzione, il termine “disagio”, forse non del tutto indovinato. Non si cambia, infatti, il messaggio evangelico, nemmeno quando mette a disagio. Io mi riferivo, in realtà, al disagio di fronte all’interpretazione scorretta del verbo “indurre” da parte della maggioranza dei fedeli.
Certo, il termine peirasmòs può essere tradotto anche con “prova”. Tuttavia, «non portarci nella prova» non mi pare che risolva tutte le perplessità. Forse la traduzione più vicina all’originale e rispettosa del verbo greco eis-phero (= porto verso, dentro) è quella francese: « ne nous laisse pas entrer en tentation » . In fondo la prova non è che l’altra faccia della tentazione.
In passato nessuno ha sentito la necessità di cambiare il testo latino del Padre nostro. È l’uso della lingua parlata che ha accentuato il desiderio, anzi la necessità, di conoscere meglio il significato delle parole che diciamo in italiano. Per quanto una traduzione sia letterale, non sempre riesce a interpretare pienamente, con tutte le sfumature, ciò che lo stesso termine diceva ai contemporanei. Anche le parole hanno una dimensione culturale.
Infine, è pur vero che Dio non ci abbandona mai. Non è certo lui che ci lascia mancare il pane quotidiano. Eppure è lo stesso Gesù che ci ha insegnato a chiedere perché sia chiaro che senza l’aiuto del Padre e senza l’intercessione del Figlio e nella comunione dello Spirito Santo, nulla possiamo. Forse, o anche senza forse, la richiesta presente nel Padre nostro intende, indirettamente, mettere a nudo anche le nostre responsabilità di fronte a chi manca del necessario.