Un immigrato messicano ascolta il discorso di Barack Obama (Reuters).
La miglior difesa, a quanto pare, è l'attacco. Così Barack Obama, uscito con le ossa rotte, e soprattutto con un Congresso a lui ostile sia al Senato sia alla Camera dei Rappresentanti, dalle elezioni di medio termine, ha scelto di non passare vivacchiando gli ultimi due anni della sua presidenza ma di passare all'offensiva.
Prima l'accordo sulle emissioni a effetto serra con la Cina. Poi l'ennesimo attacco alla Russia ("Un pericolo per il mondo") durante il G20 in Australia. Infine, proprio in queste ore, un provvedimento "pesante" sull'immigrazione, la bordata più fragorosa proprio perché tocca il fronte della politica interna e un tema assai più che delicato.
Il Presidente ha emesso un ordine esecutivo per regolarizzare gli immigrati illegali che sono negli Usa da almeno cinque anni, hanno figli e non hanno avuto problemi con la legge. Un "colpo" da quasi cinque milioni di regolarizzazioni (quattro grazie alla "sanatoria", un altro milione grazie all'innalzamento dell'età minima per arrivare negli Usa da bambini) che ha fatto ovviamente infuriare i Repubblicani, mentre Obama ha invocato il buon senso e ha detto: "Siamo sempre stati e saremo sempre un Paese di immigrati. Anche noi siamo stati stranieri una volta, e ciò che ci rende americani è la nostra adesione a un'ideale comune, quello che tutti siamo creati uguali".
Per il Parlamento a maggioranza repubblicana, opporsi a questo "ordine esecutivo" non sarà facile. Per bloccare la procedura innescata da Obama, di fatto, esistono solo due strade. Tagliare i fondi alle agenzie federali (che però non si occupano solo di immigrati illegali, e quindi sarebbero in difficoltà anche su altri fronti) oppure tentare il colpo grosso, mirando allo stesso Obama e ai suoi poteri fino a tentare l'impeachment, cui non a caso qualcuno ha già fatto cenno. Percorsi accidentati, soprattutto quest'ultimo, e pieni di turbolenze politiche di cui non tutti sono pronti, anche tra i Repubblicani, ad assumersi le responsabilità.
La mossa di Obama, in realtà, è coraggiosa ma assai meno avventurosa di quel che possa sembrare. Al contrario: è un astuto mix di idealismo e calcolo politico. Sul lato dell'idealismo c'è la giusta considerazione del fatto che la regolarizzazione andrebbe a favore di immigrati che sono sbarcato negli Usa con intenzioni serie, per costruirsi una nuova vita basata sul lavoro e sull'integrazione. Gente pulita, che si è fatta una famiglia e non ha commesso reati. E che contribuisce all'andamento dell'economia americana.
In più, la regolarizzazione sarebbe, in realtà, una gigantesca operazione di ricongiungimenti familiari che sono di fatto già avvenutio ma ancora attendono una conferma legale. Dal 2012, infatti, i figli degli illegali non possono essere espulsi, purché arrivati da bambini negli Usa; ma i loro genitori in teoria sì.
Dal punto di vista politico, invece, Obama (che aveva promesso nel 2008 dopo l'elezione e nel 2012 dopo la rielezione di intervenire sulla situazione dei 12 milioni di illegali presenti sul suolo americano) può contare su diversi fattori. Il primo è che il Senato aveva approvato una riforma bipartisan delle regole sull'immigrazione ma la Camera dei Rappresentanti, allora già a maggioranza repubblicana, l'aveva bloccata. Il ragionamento della Casa Bianca sembra quindi essere: se tu, Congresso repubblicano, non riesci a fare nulla, ci penso io e non lamentarti.
Il secondo è che l'opinione pubblica, fatta di persone che (soprattutto negli Stati del Sud-Ovest) hanno un contatto reale e diretto con gli immigrati, sembra in maggioranza favorevole a una migliore regolamentazione del problema.
Ma Obama conta, soprattutto, su un'altra considerazione. L'appoggio delle minoranze etniche è stato uno dei fattori decisivi per la sua carriera politica e, da sempre, è un elemento importante del consenso del Partito democratico. Obama sa che, mentre alle elezioni di medio termine votano soprattutto gli elettori più integrati e legati alla vita dei partiti (con la componente dei bianchi che acquista peso specifico), alle presidenziali risale la percentuale di voto degli esponenti delle minoranze.
In questo modo il Presidente ha innescato sotto i piedi dei Repubblicani una bomba a tempo: se l'opposizione ai suoi decreti sarà troppo aggressiva, questi rischiano di perdere del tutto i voti delle minoranze; se sarà debole, non impediranno al Partito democratico di prendersi il merito della riforma. Merito che potrebbe voler dire qualche milione di voti in più per il candidato democratico alle prossime presidenziali.