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giovedì 19 settembre 2024
 
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“Occhi nel deserto”, la tratta degli schiavi nel Sinai

11/01/2015  Alganesh Fessaha, italoeritrea che vive a Milano e viaggia nel mondo per salvare i profughi eritrei, pubblica “Occhi nel deserto”, raccolta di foto sul calvario dei profughi rapiti e torturati dai predoni del Sinai o imprigionati nelle carceri egiziane. La storia del traffico d’uomini nel deserto di Mosè e l’alleanza con uno sceicco salafita per liberare 750 persone.

Nel Sinai, il deserto egiziano è una terra senza legge: 30 mila persone, la maggior parte giovani, sono state sequestrate e ridotte in schiavitù negli ultimi cinque anni. Uno su 3 è morto, mentre gli altri hanno subito torture e abusi sessuali.

Qui, in caverne oscure e cantine di ville trasformate in prigioni, l’uomo ha dato sfoggio di una crudeltà causata da sete di denaro, odio razziale e religioso. Per le Nazioni Unite, nel deserto di Mosè, lungo le antiche rotte che lo collegano al Sudan e al Sahel, si è consumato il peggior traffico di esseri umani a partire dal 2008.

Le vittime e i carnefici

Le vittime sono eritrei in fuga dalla leva militare illimitata e dalla dittatura che ha trasformato il Paese in una prigione a cielo aperto, e in misura minore etiopi, sudanesi, maliani e ciadiani. A loro ‒ dopo l’accordo Berlusconi-Ghedaffi del 2008 che prevedeva di sigillare la Libia e i respingimenti collettivi per cui l’Italia venne poi condannata dalla Corte di Strasburgo ‒ i trafficanti hanno proposto una rotta alternativa per l’Europa.

Dopo aver disertato e sborsato ai passatori in patria, gli eritrei pagano i nomadi sudanesi, i Rashaida, per viaggiare stipati in camion o jeep dai campi profughi Unhcr (www.unhcr.it) di May Ayni, in Etiopia, di Shegarab, in Sudan, o da Khartoum, fino al Sinai, dove vengono consegnati ai beduini egiziani. Alcuni di questi clan fanno parte di una vera e propria organizzazione mafiosa, un meccanismo criminale che si avvale di pagamenti via money transfer e dei cellulari per chiedere i riscatti ai parenti delle vittime. Tra i vari complici, secondo le Nazioni Unite, c’è anche il generale Manjus Kifle e altri ufficiali del regime di Asmara.

Il supermarket di esseri umani

  

Ne sono la prova le foto dei corpi e volti segnati dalla violenza, un pugno nello stomaco, raccolte nel libro “Occhi nel deserto” (Edizioni Sui www.edizionisui.it/scheda.asp?IDV=304), presentato a Milano nella sede della Comunità di Sant’Egidio (www.santegidio.org).

L’autrice è Alganesh Fessaha, dottoressa italo-eritrea che da quasi 40 anni vive nel capoluogo lombardo e che l’anno scorso ha ricevuto l’Ambrogino d’oro. Nel tempo, è diventata un punto di riferimento per gli eritrei che lasciano il Paese, 4 mila al mese secondo Amnesty International (www.amnesty.it).

«Vengo chiamata a qualsiasi ora della notte e del giorno», racconta, «da profughi che mi chiedono aiuto». Almeno quattro volte l’anno, parte per il Nord del Sinai. Con la sua Ong Gandhi (www.asefasc.org/), è riuscita a liberare 750 persone rapite, poi consegnate all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite del Cairo (www.refuge-egypt.org/), mentre oltre 3 mila profughi, bambini compresi, sono stati fatti uscire dalle prigioni egiziane, dove erano rinchiusi per immigrazione illegale.

Tra plastica fusa sulla pelle e traffico d’organi

Nel 2009 Alganesh, che i profughi chiamano “mamma”, ha scoperto il traffico ascoltando le urla di ostaggi disperati. Erano le stesse chiamate che ricevevano anche i loro parenti per essere convinti a pagare il riscatto. «Mentre parlavano», dice, «venivano torturati, con plastica fusa sulla pelle, o percossi con bastoni e spranghe, mentre i loro capelli erano bruciati con il kerosene».

Lei cercava di farsi dire un dettaglio, «siamo vicini a una moschea, a un gruppo di cammelli sempre fermi», per intuirne la posizione. Si è sentita ripetere la frase: «Se non paghi, possiamo sempre vendere una cornea o un rene», con riferimento al traffico d’organi che anche ora arricchisce questi gruppi beduini. I riscatti sono aumentati dai 10 mila dollari del 2009 fino ai 45 mila del 2012 per chi aveva parenti negli Usa.

Oggi i sequestri nel Sinai sono diminuiti perché l’Egitto ha bombardato le case dei predoni, collusi con il terrorismo islamista. Nel frattempo, Israele ha alzato un muro ai confini con la Terra Promessa e ha varato una controversa legge per imprigionare i migranti irregolari. Le rotte, non la brutalità, si sono semplicemente modificate: i Rashaida rapiscono le vittime nei campi profughi del Sudan, il traffico nel deserto punta all’Egitto o alla Libia.

L’alleanza con un musulmano salafita

  

Alganesh ottiene i rilasci senza il pagamento del riscatto, ma grazie all’alleanza con uno sceicco salafita del Sinai, Awwad Mohamed Ali Hassan. «Alcuni profughi», spiega la dottoressa, «mi avevano parlato di uno sheik che tutti i venerdì parlava alle famiglie dei beduini che avevano fatto prigionieri i profughi. Sono andata a cercarlo».

Dallo sbalordimento per una donna sola, cristiana, che dall’Italia era venuta per liberare uomini e donne che non conosceva, è nata una grande amicizia. Racconta: «Quando lo incontrai, mi disse di fermarmi per la notte a dormire con le donne della sua tribù. Non chiusi occhio, temevo di essere finita nelle mani dei trafficanti. Invece, al mattino dopo, lo sheik andò a cercarli dicendo che per il Corano non era ammissibile fare violenza alle persone e non si poteva guadagnare sulla vita degli esseri umani. Da allora, varie missioni si sono ripetute e lui mi protegge come se fossi sua sorella».

Nei viaggi nei luoghi di sofferenza degli eritrei, Alganesh ha anche rischiato la vita: una volta è stata rimpatriata in Italia con omero e sei costole rotte, dopo essere stata picchiata in Libia. «Una carezza rispetto a quello che hanno sofferto i profughi rapiti nel deserto», dice. E ripensa alle donne violentate dieci volte, agli adolescenti poco più che bambini costretti a bere la propria urina, ai prigionieri scheletrici incatenati sotto terra in prossimità delle case dei predoni, di cui mostra il calvario, senza filtro, in “Occhi nel deserto”.

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