Ti alzi al mattino, accendi il tuo
smartphone e il geolocalizzatore
individua con precisione dove sei
a uso di posteri e ficcanaso. Prendi
l’auto, imbocchi l’autostrada e il
Telepass registra orario e tragitto.
Come il Tom Tom, il navigatore satellitare
che memorizza implacabile
ogni tuo spostamento. Arrivi in città e ti
fermi a un bancomat: sanno la somma che
ritiri, dove e a che ora hai fatto il prelievo.
Il frigo a casa è vuoto, passi al supermercato
per fare la spesa: in cassa fai “strisciare”
la tessera fedeltà che fotografa esattamente
i tuoi gusti e abitudini. La sera vai a cena
al ristorante e magari non vuoi far sapere
con chi: è quasi impossibile, se scegli di
pagare il conto con la carta di credito. Senza
contare l’occhio onnipresente delle telecamere:
in Italia, secondo stime non ufficiali,
ce ne sono quasi due milioni, una
ogni 35 abitanti. In un giorno, quando
una persona esce di casa in una grande città
italiana, viene scrutata mediamente da
circa 100 telecamere. Ogni lavoratore della
City di Londra, ha fatto i conti il Guardian,
passa in dieci minuti sotto 300 occhi
elettronici. Altro che Truman Show.
Morale della favola: la privacy è come
le mezze stagioni, destinata a sparire. Ad
assestarle l’ultimo colpo è stato il decreto
Monti approvato alla chetichella alla fine
della scorsa legislatura e in vigore dal 24
marzo. In pratica, per esigenze di “sicurezza
nazionale”, e senza passare dall’autorizzazione
di un magistrato, i servizi segreti
possono accedere direttamente alle “banche
dati di interesse” di operatori privati
“che forniscono reti pubbliche di comunicazione”.
Ossia, tutti quegli operatori e gestori
di servizi energetici, bancari, di trasporto,
telefonia che sanno tutto di noi e
di quello che facciamo: da Poste italiane
all’Agenzia delle entrate, da Telecom a
Finmeccanica ad Alitalia.
«Alla luce di ciò che sta accadendo oggi con lo scandalo Datagate», afferma l’avvocato
Fulvio Sarzana, uno dei maggiori
esperti di diritto della Rete, «possiamo ipotizzare
che questa norma sia stata approvata
senza passare dal Parlamento perché
probabilmente qualcuno sapeva già quel
che stava accadendo negli Usa. Nei giorni
scorsi gli americani hanno detto che, in
realtà, i dati venivano forniti dai servizi
dei Paesi amici. E questo fa riflettere».
Non bastava Internet, dove in ogni
istante lasciamo (consapevolmente) tracce
della nostra vita scrivendo su Facebook
o Twitter, la nostra privacy ora è insidiata.
«Il problema», spiega Sarzana, «è che
questa legge permette di fare la pesca a
strascico sui dati di 46 milioni di cittadini:
si raccoglie tutto e poi, all’interno di questa
massa, si seleziona quello che interessa
perché si ritiene che ci sia un’attività illecita
o per finalità commerciali. Il guaio è
che avendo a disposizione tutti questi dati
si può facilmente costruire l’identikit di
una persona e usarlo impropriamente».
Insomma, il Datagate o i gadget regalati
da Putin ai capi di Stato del G20 non impressionino
più di tanto: «Le guerre di
spionaggio tra servizi ci sono sempre state
», spiega Sarzana, «adesso però c’è uno
screening di massa su tutti i nostri dati
sensibili, mentre non sappiamo che fine
fanno e come vengono utilizzati. L’America
ha un concetto della privacy molto relativo:
per loro vengono prima gli affari e la
possibilità di monetizzare le informazioni.
In Europa siamo più rigidi, ma questo
decreto cambia quasi tutto»