L’Italia del lavoro vive un momento di apparente euforia, almeno a giudicare dai dati offerti dall'Istat. Nel secondo trimestre del 2024, gli occupati sono aumentati di 124mila unità (+0,5%), una crescita trainata dai dipendenti a tempo indeterminato (+0,9%) e dagli indipendenti (+0,7%), mentre i lavoratori a termine registrano una flessione preoccupante (-1,9%). Il tasso di occupazione raggiunge un record storico: 62,2%, mai così alto. Anche il tasso di disoccupazione è sceso al 6,8%, il livello più basso dai tempi pre-crisi del 2008.
La fotografia offerta dall'Istat sembra quella di un paese che ha finalmente imboccato la strada della ripresa. Eppure, la realtà nasconde molte ombre. Se da un lato si festeggiano i numeri, dall’altro occorre esaminare il contesto. L’aumento dei contratti stabili è certamente positivo, ma la flessione dei lavoratori a termine (-6,7% su base annua) fa emergere l’ennesima conferma: la precarietà è ancora la piaga del mercato del lavoro italiano.
Le dinamiche di crescita occupazionale si accompagnano a un incremento dell'inattività tra i 15 e i 64 anni (+0,2 punti), segno che parte della popolazione, scoraggiata o non più interessata, esce dal mercato del lavoro. Nel frattempo, l'input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, è in calo del -0,2% rispetto al trimestre precedente. Questo riflette un paese in cui la crescita economica rimane fiacca (+0,2% del PIL), mentre il costo del lavoro per unità di lavoro a tempo pieno segna un aumento dell'1,9%, alimentato sia dall’incremento delle retribuzioni (+1,7%) sia dai contributi sociali (+2,4%).
L’aumento dei salari, collegato ai rinnovi contrattuali, dovrebbe teoricamente portare sollievo ai lavoratori. Ma se consideriamo l'inflazione e l'erosione del potere d'acquisto, l'effetto potrebbe essere meno incisivo di quanto si spera. In definitiva, l’Italia sembra procedere a piccoli passi, senza però risolvere i nodi strutturali di un sistema produttivo stagnante e una forza lavoro frammentata.