Dal Perù a Roma per studiare Giurisprudenza. Il viaggio in Italia passando per la Germania e la Svizzera, l'illegalità dei primi tempi, come venditrice di artigianato peruviano per le strade della capitale. Poi, un lavoro come babysitter grazie a una famiglia che la mette in regola. L'iscrizione all'università, lo studio alternato al lavoro (come badante), la laurea (dopo quella, sempre in Legge, già ottenuta in Perù, a Lima). Oggi, un ruolo ai vertici della Cisl, come responsabile del Dipartimento immigrati, donne e giovani. Liliana Ocmin, 43 anni fra pochi giorni, sa cosa vuol dire essere migrante. Figlia di un militare e di una insegnante, da quando è arrivata in Italia, nel 1993, si occupa del problema dell'immigrazione. In Italia si è sposata, ha avuto tre figli, i più grandi hanno 15 e 13 anni, la più piccola appena sette mesi. «Ebbene sì, a 42 anni e al culmine della mia carriera sindacale, ho deciso di avere un terzo figlio», racconta, «credo che la maternità sia un valore. Sono appassionata del mio impegno sindacale, ma adoro anche fare la mamma».
Come responsabile del Dipartimento migranti della Cisl, ed immigrata lei stessa, qual è il suo pensiero sull'emergenza migratoria che stiamo vivendo?
Bisogna fare una distinzione di base fra due aspetti, che tutti confondono: l'immigrazione economica e l'immigrazione umanitaria. La distinzione ci deve essere, per senso di giustizia e per onestà intellettuale, se vogliamo mettere in atto un sistema di accoglienza sostenibile che includa tutti i Paesi europei. I profughi, coloro che fuggono dalla guerre, hanno pieno diritto ad un percorso per via legale per ottenere la protezione internazionale e l'Europa deve essere in grado di garantirlo. Noi come sindacato lo diciamo forte: va assolutamente superato il Trattato di Dublino, che impone ai migranti di restare nel primo Paese di approdo e identificazione. E bisogna parlarne adesso, non aspettare il 2017, perché l'emergenza è ora. La risposta deve essere corale, solidale, di tutta l'Europa. La distinzione fra migranti economici e umanitari va fatta a monte, prima delle partenze, non una volta che sono entrati nel nostro Paese. Quanto agli immigrati per motivi economici, «la risposta al problema è la cooperazione allo sviluppo verso i Paesi di partenza. Dovremmo intervenire incrementando le politiche di cooperazione, incentivare i sistemi dei rimpatri volontari, in un momento in cui, tra l'altro, l'Italia non è più un Paese attrattivo per la forza lavoro straniera.
Lei è arrivata in Italia più di vent'anni fa. La situazione dell'immigrazione era già un problema complesso ma decisamente diverso rispetto a oggi.
Quando sono arrivata io il quadro era molto differente: la povertà in Italia era quasi impercettibile. Da quando vivo in questo Paese ho constatato che tutti i Governi hanno usato in maniera opportunistica il tema dell'immigrazione economica, per creare consenso o dissenso: o per alimentare la xenofobia, o per portare avanti un discorso improntato a una solidarietà senza regole che spesso ha danneggiato il percorso dell'immigrazione legale. Oggi, dopo il fenomeno delle Primavere arabe ci è piombata addosso l'emergenza umanitaria: io penso che se anni fa si fosse affrontato il tema dell'immigrazione in modo serio e lungimirante oggi non ci troveremmo in questa situazione. Non si può pensare di affrontare un'emergenza globale tamponando con delle toppe qua e là. Tutti i nodi tornano al pettine. E l'Europa, su questo tema, si gioca la sua credibilità politica.
Da migrante, ha trovato un'Italia accogliente?
L'Italia non è un Paese razzista. Io ho sposato un italiano, abbiamo un numero elevato di matrimoni misti. Però la difficoltà è grande. Quello che mi preoccupa è la guerra tra i poveri che rischia di inasprirsi. Ma bisogna capire che l'immigrazione non è solo muscoli e braccia, vuol dire anche menti capaci di arricchire una Nazione e andrebbe valorizzata come risorsa. Sogno che i miei tre figli si sentano fieri di avere una madre peruviana, che non si vergognino di essere figli di una straniera. Tutto questo si costruisce non con rigidità o sentimentalismi, ma non patti chiari, con un grande spazio di condivisione di valori, assicurando garanzie ai più deboli. E i più deboli, oggi, sono i profughi.