“Il ritorno” (pubblicato da Einaudi) è un libro emozionante ed intenso che racconta una storia personale e collettiva. È la storia di Hisham Matar, nato a New York nel 1970 da genitori libici, che dopo la caduta di Gheddafi compie un viaggio in Libia per incontrare chi ha condiviso i lunghi anni di prigionia del padre Jaballa, di cui si sono perse le tracce, fiero oppositore del regime. Ma la vicenda personale si intreccia con la storia della Libia del ventesimo secolo. Una storia tormentata fra interventi militari stranieri, la dittatura, la repressione, le speranze dopo la rivoluzione del 2011 e il caos del momento presente.
Hisahm, lei non riesce a ritrovare suo padre, ma i momenti della sua prigionia le sono raccontati da suo zio Mahmoud, anche lui incarcerato. Qual è la cosa che più l’ha impressionata dei suoi racconti?
“Mio zio mi confidò che nella prigione di Abu Salim aveva subito tutte le cose peggiori che gli potessero capitare, però aveva anche scoperto di poter sopravvivere a tutto questo. C’è un posto segreto, dentro al cuore, in cui anche i più terribili aguzzini non possono violare, e in quel posto c’è lo spazio per l’amore”.
Questa consolazione attenua il dolore?
“Solo in parte. La prigionia nega la libertà, il contatto con la famiglia, con le persone a cui vuoi bene. Ti costringe a una quantità infinite di rinunce. Poi non dimentichiamo che Gheddafi non si limitava a togliere di mezzo le persone che giudicava pericolose per il suo regime, Gheddafi si divertiva a umiliarle”.
Come giudica la situazione della Libia di oggi?
“E’ un paese frammentato, in cui domina il linguaggio delle armi, non vedo spazio per il negoziato e il compromesso. Ci sono così tante armi in giro che mi è difficile immaginare la possibilità di un negoziato pacifico. Fra le varie fazioni scorre il sangue e da una parte e dall’altra c’è la volontà di eliminare gli avversari. Questo avviene nel momento in cui le istituzioni sono rudimentali, fragilissime. La dittatura ha lasciato una organizzazione statale molto precaria”.
Quali sono le responsabilità dell’Occidente per questa situazione?
“Gli europei hanno avuto la colpa di mantenere lunghi e intensi rapporti con il regime di Gheddafi, chiudendo gli occhi sulle continue violazioni dei diritti umani”.
Perché è accaduto questo?
“Soprattutto per gli interessi e gli appetiti scatenati dagli abbondanti dei giacimenti petroliferi della Libia, Purtroppo per noi il petrolio è stato una ricchezza, ma anche una maledizione”.
In Libia esiste una società civile che può contribuire alla ricostruzione del paese?
“Oggi in Libia la società civile sta in sala di rianimazione, respira appena. Tanti giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani sono stati assassinati o sono stati costretti all’esilio, qualcuno è stato ucciso anche all’estero. I superstiti della società civile, i difensori dei diritti umani, oggi sono soprattutto concentrati a Tunisi. Fino a qualche anno fa il punto di riferimento per loro era Il Cairo, ora invece vanno in Tunisia”.
Qual è il suo augurio per la Libia?
“Alla Libia auguro pace, prosperità, libertà e dignità”.