La contessa Alberica Filo della Torre, assassinata il 10 luglio 1991.
Vent'anni di indagini non sono bastati a scalfire il mistero concludendosi, alla fine, con la solita frase che sigilla tanti fascicoli stipati nei tribunali italiani: «Mancata identificazione del responsabile dell'omicidio». Il colpo di scena – in perfetta simmetria con un altro celebre “cold case” italiano, il delitto di via Poma – è arrivato qualche giorno fa: a uccidere la contessa Alberica Filo della Torre, la mattina del 10 luglio 1991, secondo la Procura di Roma, è stato il domestico filippino Winston Manuel Reves, entrato e uscito dall'inchiesta più volte in questi anni. Inchiodato dalle prove, il domestico ha confessato in lacrime l'omicidio.
L'uomo lavorò in sostituzione di un'altra persona per circa due mesi nella villa, fino all'aprile di quell'anno. Poi continuò a svolgere dei lavoretti e fu visto nella residenza all'Olgiata fino al giugno successivo. A incastrarlo, in una prova definita dal capo dei Ris di Roma Luigi Ripani «devastante», una macchia di sangue sul lenzuolo avvolto attorno al collo della vittima dopo essere stata strangolata e colpita alla testa con uno zoccolo blu. «Una perfetta coincidenza al di là di ogni ragionevole dubbio», secondo gli investigatori, quella emersa tra la traccia ematica sul tessuto e il dna di Winston Manuel. Il sangue del domestico era frutto di una abrasione al gomito sinistro, provocata probabilmente da uno strusciamento con la moquette della camera della contessa durante la colluttazione. E così, vent'anni dopo, la Giustizia è arrivata, grazie alle tecniche moderne di identificazione basate sul Dna. Un cold case all'italiana.
Questione di soldi: il movente?
La Procura ne indica due: un debito di circa un milione e mezzo di lire
che avrebbe spinto Winston a uccidere Alberica, con la quale era solito
avere discussioni per questioni economiche. L'altra ipotesi, invece, è
che il filippino sia entrato nella villa per commettere un furto,
sapendo dove la nobildonna custodiva i gioielli. Sorpreso però dalla
contessa, tra i due inizia una alterco, culminato con la morte della
contessa prima colpita ripetutamente con un zoccolo e poi strozzata sia a
mani nude che con l'aiuto del lenzuolo. Winston infatti conosceva la
combinazione della serratura del passaggio dal garage alla casa. Infine,
i due cani della villa, un mastino e un yorkshire, non abbaiarono. Un
dato che fa pensare agli inquirenti che l'assassino fosse conosciuto dai
due animali.
Pietro Mattei, marito della contessa Alberica Filo della Torre uccisa nella sua villa all'Olgiata il 10 luglio del 1991.
Dunque, sipario chiuso sul delitto dell'Olgiata? Chissà. Una cosa è certa: pochi delitti hanno offerto tanto materiale per giornalisti in vena di racconti, scrittori noir e giallisti come quello dell'Olgiata. Ombre, misteri e personaggi inquietanti si sono avvicendati sullo sfondo della patina di lusso tipica delle residenze di quel quartiere che nell'immaginario collettivo dell'epoca era sinonimo di alta società, privilegi, ricchezze da ostentare con discrezione.
Un delitto dove gli abbagli degli investigatori hanno imboccato molte strade, risolvendosi puntualmente con un nulla di fatto: dagli intrighi del Sisde ai conti cifrati dei coniugi Mattei nelle banche svizzere fino alla vendetta giudiziaria dell'ex amante del marito della contessa, Emilia Parisi Halfon, che nel pieno della tempesta di Mani Pulite si presentò dal pm Tonino Di Pietro con il vestito blu indossato quel giorno dal marito di Alberica, il costruttore Pietro Mattei. Questo è l'abito che indossava quando uccise la moglie, disse, poi si è cambiato perché era macchiato di sangue.
D'altra parte, sulla “crime scene”, come direbbe oggi qualche detective di C.S.I., sono passati in molti: a cominciare da Michele Finocchi, un agente del Sisde, e Paolo Badoglio, nipote del celebre colonnello e amico di famiglia. Anche se l'attenzione di chi indaga non è stata mai distolta dal domestico filippino, indagato quasi subito, e Roberto Jacono, figlio dell'insegnante d'inglese dei figli della contessa e del marito, il costruttore Pietro Mattei. A sparigliare le carte, vent'anni dopo, una traccia di sangue «identificata» tramite l'esame del dna tra le 51 campionate dagli uomini del Ris sul lenzuolo. Quasi un coup de théâtre a scoppio ritardato. Quello decisivo, si spera.
Elisa Claps e il luogo in cui è stato ritrovato il corpo della ragazza.
Dopo anni di silenzi, false piste e lungaggini burocratiche, del delitto dell'Olgiata si ritorna a parlare il 4 giugno 2008 quando su un fazzoletto di carta perso e dimenticato tra i reperti raccolti e conservati quel 10 luglio '91 si scopre che ci sono tracce di Dna che, se esaminate con una tecnologia più sofisticata, possono portare a qualcosa. L'inchiesta viene riaperta ufficialmente con nuove indagini che hanno portato all'arresto del domestico filippino della contessa.
Se in America grazie al Dna sono stati risolti circa 280 cold case negli ultimi 25 anni, in Italia siamo ancora lontani da questi numeri.
Tuttavia, passa proprio dalle analisi scientifiche la speranza di risolvere casi intricati e complessi come quello di Elisa Claps, la studentessa di Potenza scomparsa nel settembre del '93 e ritrovata morta il 17 marzo 2010 nel sottotetto della Chiesa della Trinità, in pieno centro. Una traccia genetica di Danilo Restivo, infatti, è stata trovata dagli investigatori del Ris sulla maglia della ragazza chiudendo il cerchio ad un mistero lungo 17 anni.
Per il delitto di via Poma, invece, il 24 gennaio scorso Raniero Busco è stato condannato in primo grado a 24 anni di reclusione. A incastrarlo tracce di saliva contenenti Dna riconducibile a lui ritrovati sul corpetto e il reggiseno che indossava Simonetta Cesaroni quando fu uccisa, il 7 agosto 1990.
Un carabiniere del Ris, il Reparto investigazioni scientifiche.
Se ieri, dunque, per venire a capo dei delitti c'era solo il fiuto da commissario degli inquirenti, adesso a dare una mano c'è la scienza. Che non sempre però ci azzecca, soprattutto quando le inchieste si basano solo sugli esami da laboratorio e trascurano tutto il resto.
L'ultima frontiera si chiama «genetic profiling» e permette, grazie all'analisi di alcuni geni, quelli che determinano, ad esempio, il colore dei capelli, degli occhi o della pelle, oppure l'origine etnica, di tracciare l'identikit del presunto assassino.
In futuro, quindi, una traccia biologica lasciata dalla persona sospettata (un capello, gocce di sangue, sudore) potrebbe servire non soltanto per identificare l'impronta genetica, cioè il dna del soggetto da confrontare poi con quello di altre persone schedate. Non solo genetica, però. La tecnologia è l'altra disciplina in grado di dare una grossa mano agli investigatori.
Oggi oltre ai tradizionali rilievi fotografici, per riprodurre la scena del delitto c'è il "laserscan" che permette di riprodurre in 3D l'intero ambiente, oggetti compresi, in modo da poter essere analizzato dagli investigatori in ufficio.
Infine, grazia alla tomografia computerizzata è possibile stabilire la traiettoria di un proiettile all'interno del corpo, dal foro di entrata a quello di uscita. Elementi preziosi per poter stabilire, ad esempio, la posizione di chi ha sparato e a quale distanza lo ha fatto. Si tratta, in sostanza, di una specie di Tac che permette l'analisi del cadavere al computer, una sorta di autopsia virtuale.