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Un processo penale è sempre una ricostruzione a ritroso: si sta un po’ come davanti a un puzzle con le tessere alla rinfusa e senza una foto di riferimento. Indagini e dibattimento mirano a ricostruire il fatto avvenuto per attribuirne la responsabilità. Ma arrivano sempre dopo gli eventi e procedono all'indietro, dentro un sistema di regole rigide, ben sapendo che ci saranno tessere mancanti, poche o tante, con un margine inevitabile di manchevolezza. A volte quel margine impedisce di decidere oltre il ragionevole dubbio e si assolve, altre volte consente comunque di capire come sono andate le cose e si decide nel merito per la condanna o l’assoluzione. Nella consapevolezza che nessun processo può riavvolgere il nastro del tempo e far riaccadere i fatti davanti agli occhi del giudice come in un film, si tratta sempre di una ricostruzione.
In Italia nei processi gravi, e anche in altri meno gravi, il caso viene vagliato più volte: primo grado e appello nel merito, Cassazione nella legittimità del percorso. Nei primi due gradi si ricostruisce quanto è accaduto, i fatti, nel terzo si vaglia la legittimità degli atti: si controlla cioè che la ricostruzione sia avvenuta secondo le regole procedurali e uno degli aspetti che viene valutato è la coerenza logica della motivazione con cui si rende nota la ricostruzione, cosa che porta, in concreto, spesso la Cassazione a rileggere anche i fatti. Tutto questo determina una giustizia lenta, con tutti i problemi del caso, ma anche una giustizia più garantita rispetto a tanti altri sistemi, che pongono molte limitazioni ai ricorsi nei gradi successivi. In Italia può accadere che in caso di dubbio la Cassazione invece di rendere subito definitiva una sentenza di condanna o di assoluzione, rimandi tutto in appello e faccia rifare il secondo grado.
Da molto tempo, sui media e soprattutto in Tv, si assiste a una sorta di processo parallelo, in cui si cerca di scimmiottare il processo vero, mettendo alla rinfusa altre tessere nel puzzle, che non conterebbero nulla in aula, ma che danno all’opinione pubblica la sensazione di comprendere una verità rapida e semplice, che però ha poco a che fare con le regole del processo vero. Tutto questo crea delle complicazioni alla comprensione dei fatti, producendo schieramenti tra innocentisti e colpevolisti.
Fino a poco tempo fa il problema era che si rischiasse di dare alle indagini un abnorme valore di colpevolizzazione, senza aspettare dibattimento e sentenza. Da qualche tempo si assiste a una novità: il processo vero finisce con la sentenza passata in giudicato, che diventa definitiva e per lo Stato resta stabile, salvo i rarissimi casi in cui nuove prove portano a revisione; il processo mediatico invece non finisce più, lo si tiene vivo giocando sulle tessere mancanti della ricostruzione o peggio su quelle apparenti che valgono in Tv dove vale tutto ma non varrebbero in aula.
Ci si aggrappa a una “verità” extraprocessuale, si continua a giocare al gioco degli schieramenti tra innocentisti e colpevolisti anche dopo che il processo nelle aule ha fatto per intero il suo corso. Tutto questo determina un’enorme confusione nella mente di chi guarda questo spettacolo perché di spettacolo si tratta, anche se chi lo vede si illude che sia processo. Si rischia che chi guarda si faccia l’idea che la decisione definitiva del giudice (mai uno solo, spesso molti nei vari gradi e nelle pronunce intermedie) sia un’opinione come un’altra dentro un calderone indistinto e che la “Verità” stia in mano al tribunale dell’audience. Con il caso della strage di Erba meglio noto come Olindo e Rosa sta succedendo questo.
Ma la giustizia non si fa in Tv e le revisioni neppure. Ci sono le aule di giustizia per questo e solo lì si può andare a bussare, secondo le regole, perché sia presa una decisione che abbia valore in nome del popolo. E invece questo meccanismo di mediatizzazione infinita convince il popolo di avere in tasca, in proprio, una verità assoluta e insidacabile, emotiva e senza regole. Benché il racconto di un noto processo di 2000 anni fa in Giudea abbia mostrato come può andare a finire.





