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Luca Zingaretti: «Il mio volto per il genio di Ivrea»

18/11/2019  Martedì 19 Raiuno ripropone in prima serata la miniserie "Adriano Olivetti - La forza di un sogno". Pubblichiamo l'intervista, uscita su "Famiglia cristiana" n. 43 del 2013, in cui l'attore protagonista della fiction parla del suo personaggio e dell'importanza che ha avuto nella società italiana.

(Foto Ansa)

Molto tempo prima di Steve Jobs c’è stato Adriano Olivetti. Molto prima che in California la “mela” della Apple vedesse la luce, in Italia, più precisamente a Ivrea, in un angolo del Piemonte, un ingegnere e geniale imprenditore, politico, editore, uomo di cultura, diventò pioniere di una rivoluzione nel mondo dell’elettronica. Ricordiamolo: il computer non l’hanno inventato in America. Il primo calcolatore elettronico della storia è nato qui da noi, nella Olivetti di Ivrea. Nel Secondo dopoguerra, mentre l’Italia ridotta in macerie lottava per uscire da una crisi lacerante, Adriano Olivetti, che aveva ereditato da suo padre Camillo la famosa azienda di macchine da scrivere, attuò una politica industriale decisamente avanzata, visionaria, innovativa, portando la società sullo scenario internazionale. In quegli anni, nacque la famosa Lettera 22, la macchina da scrivere improntata a leggerezza e funzionalità, che conquistò persino un posto nel Museum of Modern Art di New York.

Steve Jobs è venerato come un mito che ha cambiato la storia, di Adriano Olivetti, invece, in pochi si ricordano. Oggi, a portarne avanti la memoria è la Fondazione che porta il suo nome e che è presieduta da una delle figlie, Laura. Ma per la maggior parte degli italiani delle nuove generazioni il suo nome non significa nulla. A far uscire dall’oscurità la figura affascinante e complessa di quest’uomo e imprenditore piemontese è una fiction della Rai, Adriano Olivetti. La forza di un sogno. Prodotta dalla Casanova multimedia di Luca Barbareschi, alla regia c’è Michele Soavi, nipote di Adriano Olivetti stesso (sua madre, Lidia, è figlia dell’imprenditore). A vestire i panni del protagonista è Luca Zingaretti. «Di questo personaggio si sa troppo poco rispetto alla portata del suo pensiero», commenta l’attore. «Io stesso ne sapevo pochissimo. Perché Steve Jobs è ricordato come un mito e lui no? Il fatto è che noi italiani siamo innegabilmente, ahimè, esterofili, bravissimi a celebrare tutto ciò che viene da fuori. Poi, c’è anche la questione del peso politico dell’Italia sul piano internazionale rispetto all’America. Un esempio: un attore americano è conosciuto in tutto il mondo, non perché sia il migliore, ma semplicemente perché opera in un mercato egemone».

Ma la rivoluzione di Adriano Olivetti andò oltre l’elettronica, investì il modo di concepire la fabbrica, il rapporto fra datore di lavoro e dipendenti. La sua lungimiranza lo portò a immaginare un ideale di lavoro e di società improntato sui valori di giustizia sociale, arricchimento spirituale, valorizzazione dei talenti, al di là di capitalismo e socialismo. «Voglio che la Olivetti non sia solo una fabbrica, ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno loro, libertà e bellezza, a dirci come essere felici». È il discorso forte e vibrante che nella fiction Adriano Olivetti pronuncia di fronte ai suoi dipendenti. A sentirle oggi, sembrano parole inimmaginabili.

Appassionato di urbanistica e architettura, Olivetti realizzò una fabbrica moderna, bella, piena di luce. All’interno dell’azienda creò una biblioteca e un centro culturale; volle servizi sanitari all’avanguardia, abbassò l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, assicurò nove mesi di congedo maternità per le donne. Si circondò di artisti e intellettuali, assumendo letterati e scrittori. Portò il lavoro dove c’era manodopera, nel Meridione, a Pozzuoli. Esportò il modello sociale e produttivo della fabbrica nelle campagne piemontesi, creando il sistema delle Comunità. La sua visione era in largo anticipo sui tempi: l’improvvisa morte nel 1960 spezzò il sogno. La sua eredità è andata perduta, in un’Italia che non manca di spirito creativo, ma troppo spesso tende a livellare tutto, a soffocare genialità e competenze.

«Non si può dire che Adriano sia stato una persona felice», osserva Zingaretti. «Questo è il destino dei grandi innovatori. È il bisogno, la smania di conoscere, l’irrequietezza che ti fa crescere». Quell’irrequietezza che l’attore riconosce anche in sé stesso: «Io non sono mai soddisfatto. Sono estremamente esigente con me stesso, anche sul lavoro. Dopo la lavorazione di un film, raramente mi rivedo, perché so che non mi piacerei. Però quando mi rivedo a distanza di anni mi sorprendo positivamente e penso: non ero poi così male».

In questo periodo Zingaretti è impegnato in teatro con La Torre d’avorio di Ronald Harwood, «una riflessione sul rapporto fra intellettuali e società». Volto del commissario Montalbano, ha vestito i panni di grandi personaggi che hanno segnato in modo indelebile la vita politico-sociale del nostro Paese, da don Pino Puglisi a Paolo Borsellino. «Quando interpreti personaggi di questo calibro, la tua prima sensazione è l’inadeguatezza. Ma avverti anche una grande responsabilità: nel caso del giudice Borsellino sentivo un dovere morale nei confronti della sua memoria e dei suoi ultimi 55 giorni, che devono essere stati terribili. Nel caso di Adriano Olivetti, sento la responsabilità di rendere giustizia al pensiero di un italiano così geniale e restituirlo a tutti gli italiani».

Zingaretti apre un foglio bianco e comincia a leggere: «Caro Luca...». È una lettera scritta da una ragazza di 31 anni di Ivrea. Racconta di aver conosciuto Adriano Olivetti attraverso i ricordi di suo nonno, che aveva lavorato in azienda e che, quando ne parlava, lo faceva con un lampo di orgoglio negli occhi. Dodici anni fa lei ha trovato lavoro in una ditta la cui filosofia ricordava molto quella della Olivetti. Pensava di essere in una famiglia. Ma cinque anni fa, all’improvviso, hanno comunicato ai dipendenti di essere stati venduti, contratto sicuro fino al 2014, poi chissà. «A Ivrea», scrive la ragazza, «c’è tanta gente che pagherebbe per tornare ai tempi di Adriano Olivetti e di poter parlare della propria azienda con quel lampo di orgoglio negli occhi che ho sempre visto in mio nonno. Forse il problema oggi in Italia è che di orgogliosi di lavorare per il proprio capo non ce ne sono tanti, e di Adriano molto pochi». Zingaretti alza gli occhi, serio, commosso: «Non ho risposto, la ragazza non mi ha lasciato un recapito. Forse a volte è più bello così: fare le cose senza pensare di avere un ritorno». E aggiunge: «Ho voluto leggere questa lettera perché rende l’idea di quello che un imprenditore come Olivetti ha rappresentato: un modo totalmente nuovo di concepire il rapporto tra datore di lavoro e dipendente. E credo che, quando ricorderò la fiction su Adriano Olivetti, questa consapevolezza sarà ciò che mi porterò per sempre nel cuore».

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