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martedì 15 ottobre 2024
 
IL PUNTO
 

Oltre il caso Ratzinger, dall'insabbiamento alla conversione

09/02/2022  Quel che ci insegna l'appassionata lettera del Papa emerito. Dopo aver preso definitivamente le distanze da silenzi e complicità per "difendere" le istituzioni, dopo aver chiesto perdono, la Chiesa deve puntare alla conversione dei cuori e delle strutture. La riflessione del teologo Pino Lorizio

La lettera di papa Benedetto, che tanta risonanza ha avuto nei media, sul tema della pedofilia e delle responsabilità di chi ha governato e governa la Chiesa cattolica a questo riguardo, ha suscitato non poche emozioni, compresa quella di papa Francesco, esplicitata nell’udienza di oggi (mercoledì 9 febbraio) sulla cupa signora di Samarcanda (=la morte), che incombe e di fronte alla quale si dissolvono come neve al sole tutti i sofismi e i marchingegni della politica, anche ecclesiastica e le elucubrazioni della teologia. Tali vicende, come quelle che riguardano le questioni economiche e finanziarie della Chiesa, stanno vivendo una transizione epocale, che si esprime secondo tre momenti.

Il primo momento è quello dell’insabbiamento. La logica ad esso sottesa è quella per cui innanzitutto bisogna salvaguardare l’istituzione, le persone, sia delle vittime che dei carnefici, vengono dopo o, come spesso accaduto, non sono affatto prese in considerazione. Da questo punto di vista dobbiamo essere in grado di distinguere i tempi, come ad esempio nell’allegato alla lettera che riguarda il tema dell’esibizionismo. All’allora arcivescovo di Monaco, fu rivolta l’accusa di aver minimizzato il comportamento esibizionista di un parroco X. L’allegato afferma: «I difensori di Benedetto XVI fanno notare che nella memoria inviata agli estensori del Rapporto, egli afferma con la massima chiarezza che gli abusi, esibizionismo incluso, sono “terribili”, “peccaminosi”, “moralmente riprovevoli” e “irreparabili”. Ma va anche ricordato che all’epoca dei fatti (siamo nei primi anni ’80) “per il diritto canonico allora vigente l’esibizionismo non era un delitto in senso stretto, poiché la relativa norma penale non comprendeva tra le fattispecie comportamenti di quel tipo. Per questo la memoria presentata da Benedetto XVI non minimizzava l’esibizionismo, bensì lo condannava chiaramente ed esplicitamente». Ciò che sempre è peccato, non sempre è reato, anche dal punto di vista del diritto canonico. È qui un nodo del problema: da un lato la forma mentis vigente all’epoca, dall’altro la prassi giuridica ci offrono motivi di riflessione sul clima culturale ed ecclesiale, ma non solo, prevalente in quel contesto. La banalità del male non è semplicemente uno slogan a questo riguardo.

Il secondo momento è quello delle richieste di perdono, o come si suole dire, di “purificazione della memoria”. Questo riguarda le persone, la loro coscienza, quello che in tempi non cronologicamente lontani, ma ormai dimenticati, si chiamava il “foro interno”. Suggestive e significative le riflessioni offerte da Franco Cardini in una intervista apparsa oggi sul quotidiano La Stampa (9 febbraio), che con grande acume storico, ma direi soprattutto teologico, rileva: «Sono dell’avviso che certi problemi personali molto pesanti si dovrebbero risolvere nell’ambito di se stessi, nella confessione per un credente. E questo vale anche per il Santo Padre […] Non ho dubbi sulla buona fede di Ratzinger, ma sono convinto che questo continuo riversare sull’opinione pubblica anche i contenuti delle cose intime, più delicate, si traduca poi in una sensazione di sentimenti e parole dovuti. Anche un pontefice può incorrere in una eccessivamente rigorosa introspezione. Ci sarà chi penserà che Benedetto “giochi” con la richiesta di perdono per togliersi un peso dalla coscienza. E basta». Un teologo morale non potrebbe dire di meglio, anche perché sgravarsi la coscienza in pubblico può essere nocivo per la comunità cui si appartiene. Non solo, ma una richiesta di perdono in termini generici rischia di emozionare, ma non di risultare risolutiva del problema. A meno che questo sofferto comportamento non passi nella coscienza collettiva e non sia capace di animare e fecondare il vissuto comunitario.

 

A questo punto sembrano maturi i tempi (terzo livello) per una serie e profonda conversione delle persone e delle strutture ecclesiali, perché permangono purtroppo radicate strutture di peccato nel mondo e nella chiesa. Come scrivevo di recente, la svolta alla quale tutti dobbiamo lavorare riguarda appunto la centralità della persona (“diritto sussistente” secondo Antonio Rosmini), da salvaguardare e custodire soprattutto quando è vittima di violenze e abusi. Attenzione però che essa dovrà riguardare sia le vittime che i veri o presunti carnefici. Molto spesso, infatti, essi sono stati a loro volta vittime. A questo riguardo vale la pena riflettere sul contesto sessuofobico in cui la maggior parte dei presbiteri sono stati (o sono anche oggi) formati. E, in questo contesto, si è trattato di una educazione tendente a comprimere, se non sopprimere, la dimensione affettiva e sessuale dell’esistenza, la quale, a lungo andare, esplode, in forme del tutto deviate e decisamente condannabili. Dove ha portato la fedeltà assoluta all’istituzione ecclesiale, se non alla deriva concernente la sua credibilità? E dove porta la confessione pubblica e la richiesta di perdono se non al permanere della mentalità diffusa secondo cui nella Chiesa vengono perpetrati i crimini peggiori, tanto poi basta pentirsi in punto di morte? Certo, come teologi di razza quali von Balthasar e Ratzinger possono affermare, bisogna Sperare per tutti (titolo del teologo di Basilea), ma qui non si tratta dell’oltre vita, bensì di questa esistenza mortale,  che chiede giustizia, umana, mentre esula di gran lunga dalla trasparenza assoluta, che è un falso mito. La questione allora non è solo morale o politica o ecclesiastica, ma escatologica, ma di una vita oltre la vita che deve cominciare da questa vita, perché la Chiesa è segno e seme del Regno di Dio.

Allora bisogna guardare al futuro e prepararlo, anche se su di esso pesano secoli di una tendenza opposta, che ci pone sempre e comunque al cospetto della banalità del male, dirompente anche in questi casi. Di qui la domanda sull’identità del “funzionario di Dio”, per dirla con Eugen Drewermann. Se, infatti si tratta di essere funzionali al Dio di Gesù Cristo, allora si tratterà di essere a servizio esclusivo delle persone e non delle strutture. Ripartire dalla formazione e formulare un progetto educativo, comprensivo delle diverse dimensioni della persona, è un punto di partenza imprescindibile perché le future generazioni non abbiano a doversi misurare con scandali di questo genere, ma, come dice Paolo oportet haereses esse (1Cor 11,19), a patto che sappiamo trarne impulsi e spinte per un rinnovamento radicale del sistema anche ecclesiastico.

 
 
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