Wisława Szymborska ha fatto di tutto nella sua vita di scrittrice per incantare e alleggerire, per eludere i luoghi comuni e le ovvietà. La morte che l’ha colta a ottantotto anni era stata varie volte lambita, toccata, manomessa nei suoi versi: con leggerezza, con ironia e con la capacità di sorprendersi e sorprendere. Questo era il grande, raro dono (specie per una tradizione come quella italiana) della poetessa polacca (era nata vicino a Poznań nel 1923): usare del quotidiano, del comune, del noto come un grimaldello, come una quinta o un fondale all’improvviso spalancato su un brusio di voci, ipotesi, possibilità metafisiche; occuparsi della superficie e insieme della sostanza profonda, quasi senza parere, senza sforzo.
Chi ha letto anche solo qualche testo di questa raffinata e calibratissima autrice (la sua produzione non è stata particolarmente ricca, ma estremamente decantata) non può non aver tratto dai suoi versi un senso di delizia. Le cose del mondo, le cose usuali, i luoghi, i gesti, le specie animali, le situazioni diventano sulla sua pagina una sorta di universo comico e lieve, rivelatore e paradossale. Come un altro mondo, in cui il discorso sulla verità, mentre sembra negarsi, si avvera in un tono e con un andamento dimesso e piano. Molti dei suoi testi procedono non a caso secondo lo schema dell’elencazione, usando formule di ripetizione quasi litaniche, così radicate nel Dna della forma poetica.
La sua opera, dopo un paio di raccolte ancora in odore di ideologia comunista, aveva preso il volo a partire da Appello allo Yeti (1957), seguito da una serie di libri privi di sbavature, quasi perfetti nella loro esibita imperfezione: si tratta infatti di una poesia non altisonante, apparentemente semplice, anche se sostanziata di abilità tecnica e di mestiere. E di come scrivere (o non scrivere) si era occupata a lungo l’autrice, impegnata a redigere la rubrica per aspiranti scrittori di una rivista letteraria polacca. Fu il ruolo, quello di redattrice, più stabile e duraturo del suo curriculum, segnato per il resto, fin dal periodo degli studi, da irregolarità e precarietà. Anche quel posto, del resto, dovette infine lasciare nel 1966 per essersi allontanata dal Partito comunista polacco. A ripagarla di tutto giunse nel 1996 il premio Nobel per la letteratura, che la segnalò ai lettori di tutto il mondo. Da allora (ma già qualche mese prima una sua raccolta era stata pubblicata da Scheiwiller, a cura del benemerito Pietro Marchesani) è diventata una poetessa di culto anche in Italia: Paese che amava, ricambiata.
Daniele Piccini
Non c'è modo migliore di ricordare un poeta che ascoltare la sua parola. Ecco una selezione ragionata di alcuni versi dell'autrice polacca.
Cominciamo con una dichiarazione di poetica:
In una goccia d'inchiostro c'è una buona scorta
/ di cacciatori con l'occhio al mirino,
/ pronti a correr giù per la ripida penna,
/ a circondare la cerva, a puntare (da La gioia di scrivere).
Un saggio della sua ironia:
Per adesso, dice il medico, nulla di serio /
si rivesta, riposi, faccia un viaggio,
/ prenda nel caso, dopo pranzo, la sera,
/ torni fra tre mesi, sei, un anno,
/ vedi, e tu pensavi, e noi temevamo,
/ e voi supponevate, e lui sospettava
(da Vestiario).
Il suo sguardo critico sulla società contemporanea:
Meglio il prezzo che il valore
/ e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
/ colui per cui ti scambiano.
/ Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
/ È la sua forma che conta, non ciò che sente.
/ Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta (da Scrivere un curriculum).
Qualche verso sull'amore, la casualità, l'insostenibile leggerezza del vivere, rivolgendosi direttamente ai lettori:
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
/ lui si è messo al volante
/ ed è partito in fretta.
/ Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
/ E io, solo per un istante
/ Certa di quel che ho visto,
/ cerco di persuadere Voi, Lettori,
/ con brevi versi occasionali
/ quanto triste è stato
(da Prospettiva).
Stupefacente la sua capacità di scavare nelle piccole cose della quotidianità, negli "oggetti smarriti", ravvisandovi segni e simboli metafisici:
La cipolla è un'altra cosa. / Interiora non ne ha. / Completamente cipolla / Fino alla cipollità. / Cipolluta di fuori, / cipollosa fino al cuore, / potrebbe guardarsi dentro / senza provare timore (da La cipolla).
Ancora un pizzico d'ironia:
Devo molto / a quelli che non amo. / Il sollievo con cui accetto / che siano più vicini a un altro. / La gioia di non essere io / il lupo dei loro agnelli (da Ringraziamento).
Infine due citazioni che riguardano la morte. La prima, una sorta di testamento spirituale:
Mi sarebbe più lieve pensare / Di essere morta per poco, / piuttosto che ammettere di non ricordare nulla / benché sia vissuta senza interruzioni (da Il 16 maggio 1973).
La seconda, infine, una garbata rivolta contro la fine, in nome della possibilità umana di dare senso al tempo che ci è dato:
Chi ne afferma l'onnipotenza / è lui stesso la prova vivente / che essa onnipotente non è. / Non c'è vita / che almeno per un attimo / non sia immortale. / La morte / è sempre in ritardo di quell'attimo. / Invano scuote la maniglia / d'una porta invisibile. / A nessuno può sottrarre / il tempo raggiunto (da Sulla morte, senza esagerare).
Paolo Perazzolo