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mercoledì 26 marzo 2025
 
 

Omero è nato a Mogadiscio

28/02/2014  Michele Brusini, un operatore della Caritas di Udine che ha lavorato per due anni con i profughi arrivati dalla Libia in seguito alla guerra civile, ha scritto un libro di storie dedicato a "chi in Italia cercava l’America e non ha trovato nemmeno l’Italia"

Omero dov’è nato? A Mogadiscio, risponde un libro scritto da Michele Brusini, un operatore della Caritas di Udine che ha lavorato per due anni con i profughi arrivati dalla Libia in seguito alla guerra civile. “Omero è nato a Mogadiscio” è innanzitutto un libro di storie, «di chi in Italia cercava l’America e non ha trovato nemmeno l’Italia», spiega il sottotitolo. Storie malinconiche e divertenti, epiche e imprevedibili.

Tutto parte quando, il 7 dicembre 2010, nella città tunisina di Sidi Bouzid, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi grida: «Come credete che io possa guadagnarmi da vivere?». Quindi si ricopre di benzina e si dà fuoco. Bouazizi lo ha fatto perché era stufo di sopportare le umiliazioni della polizia locale, che continuava a sequestrargli il carretto e le merci, infierendo su di lui. Inizia così la “Primavera Araba” e la catena di rivolte che nel 2011 scuote i regimi in Nord Africa, portando decine di migliaia di profughi in Italia, 531 anche in Friuli. Dalla sola Libia colpita dalle bombe occidentali scappano un milione e trecentomila persone: di queste, 28.000 attraversano il Mediterraneo, a cui andrebbero aggiunti gli oltre 2300 morti affogati nel 2011. Lavoratori africani (Somalia, Nigeria, Mali…) e asiatici (Bangladesh, Pakistan) che vivevano da anni nel Paese di Ghedaffi e per cui scatta l’Emergenza Nord Africa, prevista per 50mila profughi, ma con un picco massimo di soli 25mila. Tuttavia, molti di loro vengono inseriti in strutture senza un minimo di accompagnamento sociale.

Scrive Brusini: «Agriturismi piazzati in ameni deserti dei tartari, che avrebbero rischiato il fallimento se la Libia non fosse stata bombardata, sono una palestra di isolamento, rabbia e depressione, più che di integrazione. E anche se gli hotel fossero stati tutti dei 4 stelle in pieno centro, rimane il fatto che questa accoglienza è la strada che porta all’infantilizzazione, alla deautonomizzazione che fa di loro bambini viziati e un po’ tristi». Altro errore iniziale: «Chiedono asilo politico: la strategia governativa prevede che tutti loro ne facciano richiesta. Loro firmano. Firma chi ha speranze di ottenere lo status di rifugiato e chi non le ha. Tutti sono liberi di dover firmare. Tutti asilo politico». Dopo mesi di snervanti attese, segue una prevedibilissima catena di bocciature.

È in questo contesto che deve operare l’equipe della Caritas di Udine, che da luglio 2011 subentra nella gestione di molti percorsi, con un progetto educativo e alloggi adeguati. Brusini racconta le vite dei profughi accolti, intrecciando la “grande storia” dell’Emergenza con la “piccola storia” personale ed individuale. Quest’ultima è fragile, parziale, incompiuta, ma esprime il vissuto, unisce soggettività e oggettività, individuale e collettivo, pubblico e privato. Insomma, i protagonisti da notizie mediatiche diventano persone. Così il Ciclope sulla strada di Hani, che sogna di diventare un contadino friulano, è un gallo bellicoso. Per il ghanese Abdallah, il nemico è invece la sclerotica burocrazia europea e il Regolamento di Dublino, che lo obbliga a chiedere asilo politico nel primo Paese in cui è arrivato. Peccato che sua moglie incinta sia in Norvegia con il primo figlio e da lì, diventata madre per la seconda volta, venga rimandata a Malta. Nel frattempo, Abdallah gira mezza Europa in un labirintico nostos: Ulisse ritorna alla sua isola dopo 10 anni, vedremo se lui ce la farà. In ogni caso, al contrario dell’eroe omerico, lui deve girare l’Europa da “illegale”, perché la libertà di circolazione per un padre che cerca il figlio è un’ipotesi, o un lusso per pochi, quando hai il passaporto del colore sbagliato.

Il libro racconta le difficoltà che gli operatori devono affrontare nella relazione educativa, la gestione della spesa al supermercato e le richieste di maggiori soldi, la pasta che svela le distanze alimentari e la malattia psichica che colpisce molti profughi, la scoperta di come funziona una lavatrice, il rapporto con la medicina occidentale, i parenti che chiedono soldi in patria. Nell’Italia della crisi, l’ostacolo più grande è il lavoro, che Brusini riassume con ironia: «Che ci rubino il lavoro è assodato. Resta da capire dove lo nascondano. Probabilmente lo sotterrano, non avendo loro in fondo voglia di lavorare. La cosa buffa è che quando si parla di immigrati e lavoro si cade infallibilmente in questi due stereotipi che, per quanto siano in palese contraddizione, vengono tenuti insieme dal desiderio di avere un capro espiatorio. Ben più prosaica e scontata è la realtà dei fatti: i profughi hanno subito la crisi come e più degli italiani, riuscendo a trovare ben pochi sbocchi lavorativi, e non sempre a condizioni dignitose». Lo spiegano storie come quella di Hani, che raccoglie il pane secco per darlo ai cigni del vicino parco pubblico, o di Mehmet che una notte, snervato dall’attesa, senza saluti né bagagli, parte «per Palmanova o per la Svezia». E, a sei mesi di distanza, chiama da Foggia dicendo: «Aspettiamo i pomodori».

Dopo 22 mesi, l’Emergenza finisce nel febbraio 2013. E i profughi dove sono finiti? Secondo la Caritas, quasi due terzi sono andati in altri paesi europei (alla faccia del Regolamento di Dublino, ma questo provocherà problemi con i documenti), altri (10%) come Mehmet si sono spostati nel Sud Italia a ingrossare le fila del caporalato agricolo. Poi c’è chi (5%) ha usufruito del rimpatrio assistito, chi (10%) è rimasto a Udine finendo vittima dell’alcoolismo o vivendo di elemosina e espedienti. Infine, l’ultimo 5% è rimasto nel Nord Italia e sta frequentando corsi professionali o è stato inserito, con l’aiuto della Caritas, in un circuito di tirocini e esperienze lavorative. Non si può quindi dire che il bilancio sia positivo: «Quello dell’Emergenza Nord Africa – scrive Brusini – è stato sì il tempo dell’accoglienza, ma non quello dell’integrazione: è stato un tempo spezzato. Un tempo prima spettacolarizzato e sovraesposto dai media, quindi dimenticato e ignorato da quegli stessi media. Spezzati sono stati i loro progetti, e i nostri con i loro: anche quelli andati a buon fine». È un po’ anche il senso del capitolo finale “Alcune cose che abbiamo capito” di don Luigi Gloazzo, direttore della Caritas diocesana, che già era stata in prima fila per l’accoglienza nella guerra nei Balcani: «Prima di tutto le leggi e i decreti devono essere accompagnati non solo da un elenco di cose da fornire, ma anche da buone prassi da mettere in atto. Queste, in linea di massima, sono codificate già nelle modalità di accoglienza dello Sprar (il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo, in tempi non emergenziali). Basterebbe ampliare opportunamente e con discreta flessibilità quelle modalità, ed avremmo una base per non ripartire sempre da zero. Per le solite ragioni ideologiche, durante questa emergenza non si è voluto espressamente fare tesoro di tutto questo».

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