Sì alla Tav, ma non solo. Un diffuso senso di malessere che diventa protesta, garbata ma ferma. La gente scesa in piazza stamane a Torino (30.000 persone, secondo gli organizzatori della manifestazione, almeno 40.000 secondo altre fonti) era spinta da ragioni composite: il convinto sì alla linea ferroviaria Torino-Lione era il collante, il comun denominatore di una serie di timori. «Non vogliamo che Torino finisca all’angolo. Non vogliamo perdere sviluppo e lavoro». In piazza striscioni e cartelli, ma nessuna bandiera di partito, come chiesto dalle promotrici dell’iniziative, 7 donne impegnate in diversi ambiti, dal’imprenditoria alla cultura.
La stima sui numeri ha qualcosa di evocativo. Viene subito in mente la cosiddetta marcia dei 40.000, momento topico della storia cittadina e nazionale. Era il 14 ottobre 1980: migliaia di impiegati e quadri Fiat scesero in piazza per protestare contro gli scioperi e i picchettaggi che da settimane impedivano loro di entrare in fabbrica. Fu come voltare pagina, fu l’inizio di una nuova stagione. E ora, 38 anni dopo? Tra i manifestanti del sì Tav, qualcuno, come Antonio Ramazzotti, 75 anni, pensionato Fiat, ricorda bene quella storica marcia. All’epoca lui militava nel campo opposto: «Ero delegato sindacale degli impiegati, area Fiom. Feci i 35 giorni di sciopero. Il parallelismo con i 40.000 di allora? Impossibile: un’altra epoca, un altro clima». Oggi Antonio è sceso in piazza, come tanti, «non solo per la Tav, ma per dire no a una mentalità, a politiche di disimpegno che portano alla marginalità tutto il territorio torinese. Viviamo una crisi che cova da tempo e siamo qui per dire basta».
Seppur con toni pacati e con una compostezza molto sabauda, la piazza non ha lesinato critiche all’amministrazione comunale pentastellata guidata dalla sindaca Chiara Appendino, che dal giugno 2016 è alla guida della città. Tanti i punti di frizione, dal naufragio della candidatura olimpica allo smantellamento di alcuni grandi eventi culturali istituiti dalla precedente giunta Fassino, da un sistema di infrastrutture locali ritenuto insufficiente all’isolamento delle periferie (tema che era stato portante nella campagna elettorale del M5S). Piermario, 73 anni, 2 figli e 5 nipoti, imprenditore di un’azienda attiva nel comparto auto, viaggia spesso in Francia e in Inghilterra. «Per noi l’export è una voce molto rilevante. Per questo credo che la Torino-Lione sia un asse imprescindibile per lo sviluppo. Il Piemonte è geograficamente periferico. O ci colleghiamo, o per noi sarà la fine». E conclude con una stoccata alle teorie più naif sulla decrescita felice. «Abbiamo una tradizione imprenditoriale e manifatturiera che non ha eguali al mondo. E in questo momento in Consiglio Comunale c’è gente convinta che il futuro di Torino sia piantare alberi da frutta in città…. Suvvia…».
Anche Federico, lombardo di nascita ma torinese d’adozione, sceso in piazza accanto alla moglie Maria, fa l’imprenditore. Ha una piccola azienda informatica, che scommette sul digitale. «Qui a Torino ho trovato una rete di startup e una qualità del lavoro di straordinario valore. Ora temo che tutto questo patrimonio vada disperso». La panoramica sulla piazza mostra, bisogna riconoscerlo, soprattutto chiome dal brizzolato al bianco. I giovani, comunque non sono assenti: ci sono studenti (alcuni del Politecnico), giovani lavoratori, ragazzi che si sentono derubati del futuro e temono di essere costretti a lasciare il territorio che li ha visti crescere.
E in Comune come viene accolta quest’onda pacifica? Le reazioni sono diverse. Nei giorni scorsi, mentre il tamtam dei social radunava i manifestanti, non erano mancate polemiche. Un consigliere comunale aveva profetizzato «saranno in 502», un’altra consigliera aveva liquidato la manifestazione come un raduno di «anziani disinformati, disperati e “madamìn” (signore benestanti e salottiere, ndr)». Commento che ha prontamente scatenato l’ironia di molte delle manifestanti, orgogliose di essere delle “madamìn torinesi”. Marisa, 67 anni, ex impiegata nel settore metallurgico, oggi in pensione, porta al collo un cartello: “Better madamìn than badòla”, cioè “meglio signora che stupida” (“badòla”, uno di quei termini dialettali sdoganati al grande pubblico dai siparietti di Luciana Littizzetto). Marisa dice di non sentirsi sicura a uscire per strada e fa vedere l’orologio da 8 Euro che ha al polso, piccolo simbolo di una crisi. «Però, com’era bella la mia Torino ai tempi delle olimpiadi».
Se all’interno del Consiglio Comunale non è mancata qualche intemperanza, ben diverso è stato, fin da subito, l’atteggiamento della sindaca Chiara Appendino. Già nei giorni scorsi, pur ribadendo di avere una diversa posizione sulla Tav, aveva detto «Sono la sindaca di tutti e ascoltare le ragioni di chi protesta è un mio dovere». Concetto ribadito oggi. «La mia porta è sempre aperta. In piazza c’erano anche molte energie positive».
(Foto di Paolo Siccardi)