Anche in mezzo a una crisi umanitaria che non ha precedenti, c'è chi non smette di testimoniare la pace e la speranza. Nel campo profughi di Telabbas, nel Nord del Libano, dove arrivano le famiglie siriane in fuga dall'inferno della guerra, vivono e lavorano i volontari dell'Operazione Colomba. Sono il corpo di pace legato alla Comunità Papa Giovanni XXIII, l'associazione fondata nel 1973 da don Oreste Benzi e attiva in 27 Paesi. Sono uomini e donne che hanno scelto di reagire ai conflitti condividendo la vita di chi non ha voce e viene schiacciato dalla violenza.
In Libano Operazione Colomba è presente dal 2013, chiamata a intervenire in un contesto ad alta tensione. A fronte dei suoi 4 milioni di abitanti, dall'inizio del conflitto siriano il Libano ha accolto un numero incalcolabile di profughi: i dati ufficiali parlano di un milione e mezzo, ma è probabile che siano molti di più, forse due milioni. A Telabbas, che si trova a pochi chilometri dal confine con la Siria, si sente in lontananza il rumore dei bombardamenti, ma soprattutto si tocca con mano l'entità della tragedia.
Ne parliamo con Alessandro Ciquera, giovane volontario, appena rientrato dal suo terzo viaggio in Libano (alle spalle una lunga esperienza sul campo. Per due anni è vissuto e ha operato in Palestina, sempre con Operazione Colomba). «Le condizioni dei rifugiati siriani sono estremamente drammatiche» ci racconta. «Quasi in ogni famiglia c'è chi ha perso un parente sotto i bombardamenti, chi è stato incarcerato, chi ha subìto violenze e torture». I contatti con i familiari rimasti nel Paese d'origine sono pressoché impossibili. Lo testimonia una tra le tante storie raccolte: «Abbiamo incontrato una mamma con due bambini malati di talassemia che hanno bisogno di trasfusioni mensili di sangue. Per loro potrebbero aprirsi le porte dell'accoglienza in Italia, ma la donna non se la sente di partire, perché ancora spera di potersi ricongiungere col marito, detenuto in patria, del quale però non si hanno più notizie da mesi».
Se la Siria è in preda alla violenza e al caos più assoluto, la situazione nei campi profughi libanesi è, almeno sotto certi aspetti, altrettanto difficile. I rifugiati vivono all'interno di tende, esposti alle intemperie e in condizioni di sicurezza precaria. Trattandosi infatti di campi “informali”, la legge proibisce la costruzione di qualunque elemento in muratura. Come se non bastasse, i profughi devono far fronte a tutta una serie di spese, che rischiano di stritolarli. Ad esempio, devono pagare l'affitto del terreno che occupano (3.000 dollari ogni anno). Il permesso di soggiorno si ottiene solo a pagamento, come l'assistenza sanitaria. Così i pochi soldi portati con sé dalla Siria (magari i risparmi di una vita) si esauriscono in fretta. L'Unhcr (l'agenzia Onu per i rifugiati) contribuisce alle spese, ma i fondi scarseggiano. Se poi i profughi vengono fermati dalla polizia libanese senza i documenti in regola, vengono arrestati e detenuti per tre giorni, col rischio di subire ulteriori violenze. «Senza soldi e senza lavoro diventano facili vittime dello sfruttamento» spiega Ciquera. Anche per questo, in tanti scelgono una soluzione estrema: la strada che porta in Turchia e poi, via mare, verso l'Europa, la cosiddetta rotta balcanica. E' un viaggio pericolosissimo, che può costare la vita, «ma molti lo ritengono comunque preferibile rispetto alle condizioni di vita in Libano».
A Telabbas, come in molti altri luoghi del mondo, Operazione Colomba sostiene le vittime della violenza con una presenza fisica continuativa. «Stiamo in mezzo a loro, condividendo la quotidianità, cerchiamo di dar loro sicurezza, facendo anche valere il nostro status di cittadini europei, che implica alcune garanzie: mettiamo, insomma, a disposizione il nostro passaporto». Una parte importante dell'aiuto passa attraverso l'ascolto: «Emergono vicende personali terribili, violenze e privazioni accanto ad atti di eroismo. Come la storia di quella donna di Homs, madre di nove figli, che nella città sotto assedio è riuscita a rimediare gli ingredienti per fare delle polpette di olio e farina, garantendo la sopravvivenza a tanti bambini».
Accanto alla presenza in Libano, Operazione Colomba, insieme a Comunità di Sant'Egidio e Federazione delle Chiese Evangeliche d'Italia, si è impegnata per l'apertura di un corridoio umanitario. E' stato infatti siglato un protocollo d'intesa col Governo Italiano che consentirà ad alcuni rifugiati siriani di raggiungere il nostro Paese attraverso canali sicuri. I primi 100 partiranno a breve e saranno in Italia prima della fine del mese.