Duemila volontari in 25 anni sono partiti per una presenza nonviolenta in 17 situazioni di guerra nel mondo. Sono per lo più giovani, che hanno scelto il servizio civile, e che vogliono provare un’esperienza forte, oppure persone in pensione, che hanno tempo e desiderano dedicarlo agli altri. Non servono tanti requisiti; basta essere neutrali rispetto alle parti in causa e avere un atteggiamento nonviolento, poi viene fatta la formazione.
E proprio nella sede storica della formazione, presso la parrocchia di San Lorenzo in Correggiano, a qualche chilometro da Rimini, Operazione Colomba, il Corpo nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, qualche settimana fa ha festeggiato il compleanno, nell’ambito del Colombaraduno 2017.
C’è chi parte per un periodo breve, chi invece sceglie di stare via più a lungo. Ma per ciascuno al ritorno la vita non sarà più la stessa. «Avere visto di persona un fronte, i campi profughi, i crateri provocati dalle bombe, aver sentito gli spari, ascoltato le testimonianze di chi ha perso tutto, aver consolato i bambini che piangono, inevitabilmente porta ad acquisire una coscienza critica sul tema delle guerre», spiega Luca Luccitelli, pure lui “sul campo”, ma che si occupa anche delle relazioni con la stampa.
Attualmente i volontari sono in Israele e Palestina, in Libano, in Albania e in Colombia. Nel 2016 Operazione Colomba in Palestina ha denunciato 122 violenze e aggressioni compiute da coloni ai danni dei civili, 94 abusi e violenze operati dall’esercito, 21 da parte della polizia.
In Colombia sostiene la resistenza della Comunità di Pace di San José de Apartadò, rimasta disarmata e neutrale rispetto al conflitto in corso, proteggendola con una presenza internazionale dalle incursioni di esercito e paramilitari. In Albania continua a scortare disarmati i bambini e le loro famiglie minacciate dalle vendette delle faide. In Libano protegge i profughi siriani, dagli sgomberi e dalle incursioni dell’esercito.
L’avventura è iniziata nel 1992, in quella guerra sporca che fu l’ex Jugoslavia. Alberto Capannini e Antonio De Filippis, romagnoli, partirono un po’ allo sbaraglio, con nel cuore il desiderio di un mondo più giusto, oggi sono la memoria storica di un movimento ormai consolidato che da allora è intervenuto nella maggior parte delle crisi belliche degli ultimi anni. «Eravamo un gruppo di obiettori di coscienza impegnati affinché la legge sull’obiezione venisse migliorata – racconta Capannini -, non potevamo certo stare fermi di fronte ad una guerra vera. L’idea era di un’alternativa all’uso delle armi, proposta subito condivisa e sostenuta da don Oreste Benzi, che nel 1968 a Rimini aveva fondato la Comunità Papa Giovanni XXIII, con il quale alcuni di noi erano in contatto. Io e Antonio siamo partiti in auto arrivando fino a dove era possibile. Il fronte era a Zara; di qua il territorio controllato dai croati, poi una valle minata, e di là la zona controllata dai serbi. Una volta arrivati in territorio croato, abbiamo chiesto se potevamo restare con loro. Ci guardavano malissimo, non capendo perché mentre tutti scappavano, noi volevamo andare in quell’inferno. Dopo quel primo approccio, siamo tornati in Italia e abbiamo fatto pubblicare un articolo dove spiegavamo che volevamo andare a vivere al fronte per stare accanto ai civili. Una decina di “soggetti, dal pazzo al criminale, con tutte le sfumature intermedie”, ci contattò per venire con noi. Una coppia appena sposata scelse quel confine come luogo del viaggio di nozze. Accolsero in casa una signora croata sopravvissuta alla strage, con problemi psichici; ha vissuto con loro per una ventina d’anni fino alla sua morte».
Da allora Operazione Colomba è stata presente dalla Bosnia alla Sierra Leone, dalla Cecenia all’Uganda, dal Messico alla Palestina, da Timor Est al Libano.
Alberto, com’è iniziato il tuo percorso?
«A me piace fare l’esempio della torta. Il primo ingrediente è cominciare a pensare che la nostra vita vale come quella degli altri. Il contrario di questo è il razzismo. Il secondo ingrediente è vedere nella concretezza se è vero che la cosa più forte che esiste è la violenza, o se c’è qualcosa di più estremo. Ho incontrato dopo tanti anni una ragazza conosciuta a Zara. Mi disse: “Quello che voi dicevate, per noi non era importante perché era politica, però voi avete mischiato la vostra vita con la nostra, e questo è grande”. Terzo ingrediente è lavorare con tutte le parti. E infatti in quel ’92 riuscimmo ad arrivare anche nella zona serba. Mettevamo in contatto le famiglie divise dalla guerra, recapitavamo le lettere. Una volta un padre mi ha incaricato di “portare un abbraccio” a sua figlia. Lì ho capito che la strada era quella giusta».
«L’intuizione iniziale, dunque, è stata quella di portare dei volontari civili, non armati, al fianco dei più poveri, nel cuore delle guerre, scoprendo presto che questo modello di intervento funzionava: la presenza di internazionali, estranei al conflitto, è già un buon deterrente all’uso della violenza e favorisce il dialogo», conclude Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Papa Giovanni XXIII.