Domenico Scandella, detto Menocchio, è un mugnaio friulano. Vive lontano dal potere di Roma, dalle influenze di Venezia. Siamo nel Cinquecento e lui non vuole uniformarsi all’idea di fede dell’epoca. Viene quindi accusato di eresia. Abbiamo intervistato il regista di Menocchio Alberto Fasulo, che ci ha parlato della religione e della paura del diverso.
Perché raccontare la vicenda di Menocchio oggi?
Dobbiamo confrontarci con la Storia, imparare dal passato, fare tesoro delle esperienze altrui, capire il valore delle azioni di chi è venuto prima di noi. Menocchio ci insegna che i diritti dobbiamo riconquistarceli tutti i giorni, senza darli per scontati. Lui non era un “eretico”, viveva solo secondo la sua natura. L’eresia è un giudizio soggettivo che arriva dagli altri, che attacca un modo di essere, di pensare. Oggi è un concetto difficile da definire: si assiste a una continua critica di ogni valore.
C’è una forma di spiritualità che vuole trasmettere attraverso questo film?
Assolutamente sì. Credo molto nella spiritualità, è qualcosa che fa parte di noi stessi, che viene dal profondo. Ci accompagna nei momenti di solitudine. È una “presenza” costante, specialmente se pensiamo alle sequenze in cui Menocchio è in prigione. È qualcosa che va oltre la religione, che si integra con la nostra esistenza.
Qual è il suo rapporto con la religione?
È strutturato su vari livelli. C’è un piano politico, che riguarda dinamiche più terrene, e c’è il momento in cui vado alla ricerca di risposte. La mia formazione deriva dalla Chiesa Cattolica. Sono cresciuto in questo contesto, sono stato battezzato, sono sposato. Ma sento che oggi non è l’unica soluzione. È necessario sentire più voci per costruirsi la propria. Scegliere un credo è qualcosa di molto personale, non deve derivare da un’imposizione. Ognuno sente la fede a modo suo. C’è chi va a messa tutte le domeniche e chi non ci va mai, chi vive secondo i Vangeli e chi non li rispetta nel quotidiano, anche frequentando la parrocchia. Servirebbe un po’ d’ordine.
In che modo?
Con il confronto aperto e l’autocritica. Bisogna avere il coraggio di riconoscere i propri errori. Serve una comunicazione costruttiva. Dobbiamo tornare ad ascoltarci guardandoci negli occhi, scendere dagli altari e stare in mezzo alla gente, come faceva Gesù. Papa Francesco è un grande “rivoluzionario”, sta davvero cercando di cambiare le cose. Attraverso di lui, la Chiesa sta riscoprendo l’importanza del dialogo.
Per realizzare il film che fonti ha utilizzato? È partito dal saggio Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg?
Sono andato alla ricerca delle fonti originali, dei documenti dell’epoca, da cui anche Ginzburg ha tratto il suo saggio. Ho fatto uno studio iconografico di quel periodo. La mia formazione mi ha aiutato a realizzare questo progetto. Non volevo girare un film in costume, ma lasciare la parola a un Menocchio vivo e attuale. Lo sguardo è alla nostra epoca. È stata un’occasione per dare spazio all’umanesimo, alla mia passione per l’antropologia. Non lavoro mai con attori professionisti, mi piace rapportarmi con le persone. Mi interessava la parte umana di Menocchio, non il personaggio storico.
Giovanna d’Arco, Giordano Bruno, Menocchio. Che cos’hanno in comune?
L’impossibilità di tradirsi, di rinnegarsi. Non possono disconoscere la loro identità, cercare di essere qualcosa che non sono. Avevano una visione del mondo che andava contro le idee dell’epoca. Hanno cercato di difendersi, ciascuno a modo suo. Giordano Bruno ha addirittura rifiutato l’abiura. Il diverso ha sempre fatto paura. Oggi se non ti adegui al sistema vieni rigettato: non capisco questo modo di pensare. Tutto ciò che è “differente” dovrebbe arricchire, portare qualcosa di nuovo. Invece ci sentiamo sempre in pericolo. È proprio qui che nasce “l’eresia”.