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lunedì 20 marzo 2023
 
Intervista
 

Orlando: "Più sicurezza, meno carcere"

18/04/2016  Si concludono, con una due giorni a Rebibbia, gli Stati generali dell'esecuzione penale, che hanno visto lavorare, per mesi, esperti, magistrati e operatori sulla riforma carceraria e sulle misure alternative alla detenzione. Il ministro della Giustizia spiega: «Vogliamo un carcere più aperto. Bisogna spezzare il circuito criminale e impedire che le prigioni diventino scuole di radicalizzazione».

«Rispetto al sovraffollamento e alle questioni per cui ci bacchettava l’Europa siamo rientrati nei ranghi. La sentenza della Corte europea si è chiusa definitivamente con una assoluzione per l’Italia, ma non siamo assolti, dal punto di vista morale, rispetto alla finalità della pena. Quella vicenda è servita da stimolo, ma non dobbiamo pensare che archiviata quella sentenza possiamo archiviare il tema di come riformare il carcere». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è determinato a dare finalmente attuazione al dettato costituzionale e a fare degli istituti di pena dei luoghi dove si spezza il circuito criminale. A conclusione degli Stati generali dell’esecuzione penale il ministro spiega che questi mesi «hanno già prodotto un documento inviato al Csm e che le proposte sono moltissime. Si tratta di una vera  e propria banca dati di progetti,  di idee e di riflessioni che potrà essere utile sia al legislatore sia all’amministrazione e sia alla società».

Ministro, in carcere ci sono soprattutto immigrati. C’è da temere soprattutto per quanto riguarda il terrorismo estremista?

«La realtà più esposta al fenomeno di radicalizzazione è sicuramente il carcere. Per questo bisogna ripensarne il funzionamento. Mettere insieme detenuti con origini delinquenziali diverse può creare quel fenomeno di proselitismo che abbiamo registrato in Paesi dove questo fenomeno si è sviluppato prima».

Quindi anche per gli stranieri pensate alle pene alternative al carcere?

«Incontrando i magistrati di sorveglianza abbiamo pensato  a una traduzione in tutte le lingue del vademecum per la richiesta delle pene alternative. Dobbiamo capire che non è tenendoli tutti chiusi e tutti insieme che si migliora la sicurezza. Quello che abbiamo visto nel corso degli anni è che dove si sviluppano delle pene alternative, anche per gli stranieri, c’è un abbattimento della recidiva molto significativo quindi un miglioramento delle garanzie di sicurezza per i cittadini».

A Roma c’è un accordo per utilizzare alcuni detenuti nel corso del Giubileo?

«Si tratta di un accordo appena siglato con il commissario Tronca per 120 detenuti che svolgeranno lavori di pubblica utilità nella città di Roma e che saranno coinvolti anche nella gestione dei servizi ai pellegrini in alcune fasi del Giubileo. Tutto questo anche per raccogliere un’indicazione simbolica che viene dall’Anno Santo. Per Roma è legata al Giubileo, ma abbiamo esteso l’iniziativa a tutto il Paese e vorremmo renderla strutturale legando la possibilità di uno sconto di pena per chi si rende disponibile a questa attività».

La gente però ha paura quando si parla di far uscire dei detenuti.

«Accade perché non ci si rende conto che è proprio la paura, delle volte, a generare dei muri che poi a loro volta creano circuiti delinquenziali. Se non si abbatte questa barriera il rischio è che chi è oltre ci rimanga per sempre e che non ci sia nessuna possibilità, non solo di rieducazione e recupero dal punto di vista morale, ma proprio di scardinamento dei circuiti delinquenziali. Chi si trova fuori, chi esce dal carcere e vede questo stigma così forte è oggettivamente condannato a ritornare nella condizione di partenza. Soltanto se rompiamo questo muro possiamo aspirare ad avere un miglioramento delle condizioni di sicurezza per tutti i cittadini».

Qual è l’idea di fondo della riforma delle carceri?

« È quella di costruire un carcere meno passivo. Attualmente molti benefici vengono accordati semplicemente se non ci sono note negative sul detenuto. Non ha rilievo se qualcuno si è messo a studiare o ha reso migliori le condizioni del carcere in cui vive o si è impegnato in qualche attività utile per gli altri. La rilevanza, per accedere ai benefici di legge, è soltanto quella di non avere fatto qualcosa, di non aver creato problemi. Questo crea – dicono gli psicologi – un processo di infantilizzazione. Quando il detenuto esce ha come unica rete relazionale quella che si è costruito dentro o attorno al carcere oppure quella preesistente di carattere criminale, con una regressione anche nella capacità di assumersi responsabilità. Noi vorremmo costruire un carcere che consenta, invece, di riconoscere le differenze di comportamento, di dare a chi merita e non semplicemente a chi non fa, di stimolare un atteggiamento attivo, anche se questo implica una serie di oneri per il carcere e anche per gli operatori».

Ci sarà un aggravio economico?

«Tutt’altro. Attualmente spendiamo tre miliardi  di euro per l’esecuzione pensale. Ma se guardiamo bene scopriamo che, per esempio, le pene alternative consentirebbero di spendere di meno e di avere, in termini di recidiva, un abbattimento significativo».

Ci sono già degli istituti pilota?

«Sono contrario all’idea degli istituti pilota per una ragione molto semplice: perché poi diventano un fiore all’occhiello che autorizza tutti gli altri a rimanere come sono. Con gli Stati generali ho incontrato due volte i direttori di tutte le carceri e con loro ho condiviso l’obiettivo fondamentale di alzare la media, anche solo di un po’, di tutti gli istituti in tutto il Paese. Questo credo sia meglio di avere un carcere che funziona benissimo e tutti gli altri che funzionano come 30 anni fa».

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