«Rispetto al sovraffollamento e alle questioni per cui ci
bacchettava l’Europa siamo rientrati nei ranghi. La sentenza della Corte
europea si è chiusa definitivamente con una assoluzione per l’Italia, ma non
siamo assolti, dal punto di vista morale, rispetto alla finalità della pena. Quella
vicenda è servita da stimolo, ma non dobbiamo pensare che archiviata quella sentenza
possiamo archiviare il tema di come riformare il carcere». Il ministro della
Giustizia Andrea Orlando è determinato a dare finalmente attuazione al dettato
costituzionale e a fare degli istituti di pena dei luoghi dove si spezza il
circuito criminale. A conclusione degli Stati generali dell’esecuzione penale il
ministro spiega che questi mesi «hanno già prodotto un documento inviato al Csm
e che le proposte sono moltissime. Si tratta di una vera e propria banca dati di progetti, di idee e di riflessioni che potrà essere
utile sia al legislatore sia all’amministrazione e sia alla società».
Ministro, in carcere ci sono soprattutto immigrati. C’è da
temere soprattutto per quanto riguarda il terrorismo estremista?
«La realtà più esposta al fenomeno di radicalizzazione è
sicuramente il carcere. Per questo bisogna ripensarne il funzionamento. Mettere
insieme detenuti con origini delinquenziali diverse può creare quel fenomeno di
proselitismo che abbiamo registrato in Paesi dove questo fenomeno si è
sviluppato prima».
Quindi anche per gli stranieri pensate alle pene alternative
al carcere?
«Incontrando i magistrati di sorveglianza abbiamo pensato a una traduzione in tutte le lingue del
vademecum per la richiesta delle pene alternative. Dobbiamo capire che non è
tenendoli tutti chiusi e tutti insieme che si migliora la sicurezza. Quello che
abbiamo visto nel corso degli anni è che dove si sviluppano delle pene alternative,
anche per gli stranieri, c’è un abbattimento della recidiva molto significativo
quindi un miglioramento delle garanzie di sicurezza per i cittadini».
A Roma c’è un accordo per utilizzare alcuni detenuti nel
corso del Giubileo?
«Si tratta di un accordo appena siglato con il commissario Tronca
per 120 detenuti che svolgeranno lavori di pubblica utilità nella città di Roma
e che saranno coinvolti anche nella gestione dei servizi ai pellegrini in
alcune fasi del Giubileo. Tutto questo anche per raccogliere un’indicazione
simbolica che viene dall’Anno Santo. Per Roma è legata al Giubileo, ma abbiamo
esteso l’iniziativa a tutto il Paese e vorremmo renderla strutturale legando la
possibilità di uno sconto di pena per chi si rende disponibile a questa
attività».
La gente però ha paura quando si parla di far uscire dei
detenuti.
«Accade perché non ci si rende conto che è proprio la paura,
delle volte, a generare dei muri che poi a loro volta creano circuiti
delinquenziali. Se non si abbatte questa barriera il rischio è che chi è oltre
ci rimanga per sempre e che non ci sia nessuna possibilità, non solo di rieducazione
e recupero dal punto di vista morale, ma proprio di scardinamento dei circuiti
delinquenziali. Chi si trova fuori, chi esce dal carcere e vede questo stigma
così forte è oggettivamente condannato a ritornare nella condizione di
partenza. Soltanto se rompiamo questo muro possiamo aspirare ad avere un
miglioramento delle condizioni di sicurezza per tutti i cittadini».
Qual è l’idea di fondo della riforma delle carceri?
« È quella di costruire un carcere meno passivo. Attualmente
molti benefici vengono accordati semplicemente se non ci sono note negative sul
detenuto. Non ha rilievo se qualcuno si è messo a studiare o ha reso migliori
le condizioni del carcere in cui vive o si è impegnato in qualche attività
utile per gli altri. La rilevanza, per accedere ai benefici di legge, è
soltanto quella di non avere fatto qualcosa, di non aver creato problemi.
Questo crea – dicono gli psicologi – un processo di infantilizzazione. Quando
il detenuto esce ha come unica rete relazionale quella che si è costruito dentro
o attorno al carcere oppure quella preesistente di carattere criminale, con una
regressione anche nella capacità di assumersi responsabilità. Noi vorremmo
costruire un carcere che consenta, invece, di riconoscere le differenze di comportamento,
di dare a chi merita e non semplicemente a chi non fa, di stimolare un
atteggiamento attivo, anche se questo implica una serie di oneri per il carcere
e anche per gli operatori».
Ci sarà un aggravio economico?
«Tutt’altro. Attualmente spendiamo tre miliardi di euro per l’esecuzione pensale. Ma se
guardiamo bene scopriamo che, per esempio, le pene alternative consentirebbero di
spendere di meno e di avere, in termini di recidiva, un abbattimento
significativo».
Ci sono già degli istituti pilota?
«Sono contrario all’idea degli istituti pilota per una ragione
molto semplice: perché poi diventano un fiore all’occhiello che autorizza tutti
gli altri a rimanere come sono. Con gli Stati generali ho incontrato due volte
i direttori di tutte le carceri e con loro ho condiviso l’obiettivo
fondamentale di alzare la media, anche solo di un po’, di tutti gli istituti in
tutto il Paese. Questo credo sia meglio di avere un carcere che funziona
benissimo e tutti gli altri che funzionano come 30 anni fa».