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mercoledì 18 giugno 2025
 
 

Osare il futuro, le Acli a congresso

03/05/2012  Per rimettere in piedi l'Italia, afflitta da una grave crisi che è di valori, e non solo economica, occorre ridare fiato, dignità e ideali alle comunità locali. Battendo l'antipolitica.

Servire il bene comune aiutando la gente là dove la gente vive, lavora e fatica. Politica, sì, ma politica dal basso. Una politica fatta di circoli e patronati, ricca di 7.500 strutture territoriali e di 998 mila iscritti. Le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) vogliono rimanere fedeli alla loro vocazione. Non è un caso, dunque, che il tema scelto per il loro 24° congresso nazionale sia: «Rigenerare comunità per ricostruire il Paese».

Per rimettere in piedi l'Italia, afflitta da una grave crisi che è di valori, e non soltanto economica, occorre ridare fiato e dignità alla base. Offrendo un orizzonte popolato di ideali: lavoro, equità, giustizia, disarmo, pace. Riflettendo su questi le Acli celebrano il congresso. I lavori si svolgono a Roma dal 3 al 6 maggio; 670 i delegati. L’assemblea rinnova ogni quattro anni gli organi dell’associazione ed elegge direttamente il presidente nazionale. Per preparareil congresso ed eleggere i delegati in tutta Italia si sono svolte 3.500 assemblee di circolo, più di 106 congressi provinciali e 21 congressi regionali.

La parola d’ordine è fedeltà: alla Chiesa, alla democrazia, ai lavoratori. Un impegno al quale le Acli non si sono mai sottratte. Fin da quel 1° maggio 1955 quando il motto fu lanciato in piazza del Popolo, a Roma, dall’allora presidente Dino Penazzato a sancire ufficialmente quel che era stato il cammino dell’associazione nei suoi primi dieci anni di vita. E a indicare la strada sulla quale, pur con tutte le turbolenze della storia, le Acli avrebbero continuato a camminare.

Nel riceverli in piazza San Pietro al mattino, Pio XII era rimasto sorpreso: «Ma quanti sono? Non ho mai visto tanta gente. E sono tutti lavoratori», aveva detto a monsignor Ernesto Civardi, allora assistente ecclesiastico delle Acli, e al futuro Paolo VI. In 300 mila erano convenuti in piazza per festeggiare anche cristianamente la loro festa.

Chi vestito da operaio, chi da contadino, giovani e meno giovani, con una lista interminabile di doni, dal trattore al peschereccio, fatto passare sulla testa dei lavoratori. Non mancavano neppure tecnici e comparse di Cinecittà che innalzavano un cartello con scritto Ben Hur. Tutti insieme formavano una folla senza fine che dalla piazza si spingeva al ponte sul Tevere.

Per loro, in quell’occasione – e proprio su richiesta della presidenza delle Acli – Pio XII volle istituire la festa di san Giuseppe lavoratore, «il battesimo cristiano della festa del lavoro». Le Acli, d’altronde, sono da sempre un movimento di massa. Nella mente di Achille Grandi, il suo fondatore, nascono sul finire dell’agosto 1944 come corrente cattolica del sindacato unitario costituitosi qualche mese prima, con il Patto di Roma (giugno 1944), cristiani, socialisti e comunisti gli uni accanto agli altri. L’Italia è ancora divisa, si combatte e si muore, ma il mondo del lavoro è già in fermento.

La voglia di un’esperienza nuova, vitale, dinamica è testimoniata dal moltiplicarsi dei circoli con cui le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, le Acli appunto, si radicano nel territorio: sono 250 nel settembre 1945, diventano 1.846 appena il Nord liberato dal nazifascismo può dare il suo contributo di idee e di fabbriche, risultano essere oltre 3.600 nel 1947 e sfiorano “quota” 5 mila nel mitico e travagliato 1948 (stando ai puntigliosi registri dell’epoca sono 4.825).

Diffusione capillare e notorietà viaggianoa braccetto. È il 1951 quando nel film Mamma mia che impressione! Alberto Sordi guida un gruppo di tenaci corridori della parrocchia con addosso una vistosa canottiera Acli Roma. E un giovanissimo Lucio Dalla, a soli 16 anni, gioca a basket con le Acli Labor. Il coinvolgimento dei giovani e l’attenzione alla formazione sono due cavalli di battaglia per questa “associazione di associazioni”, fortemente popolare e radicata nel sociale.

Non sempre son rose e fiori. Capita che le Acli provochino la “deplorazione” del Papa. Dopo la scelta, nel congresso di Torino del 1969 (presidente Livio Labor), della fine del collateralismo con la Democrazia cristiana e dopo “l’ipotesi socialista”, lanciata nel convegno di Vallombrosa del 1970 dal presidente Emilio Gabaglio, Paolo VI interviene ufficialmente. «Le Acli hanno fatto piangere il Papa», si disse allora. Una sofferenza reale per un Papa che li aveva apprezzati e sostenuti e che, invece, sarà costretto a dire che i loro nuovi orientamenti «con le discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali sono fuoridall’ambito delle associazioni per le quali la gerarchia accorda il consenso». Vengono ritirati gli assistenti ecclesiastici e si apre una lunga stagione di frattura.

Ci vorranno sei anni per avere di nuovo un assistente spirituale (anche se non più un vescovo) e undici per essere ricevuti di nuovo ufficialmente da un Papa. Padre Pio Parisi, il gesuita che affianca l’associazione per lunghi anni e che le resta affezionato fino alla morte avvenuta lo scorso agosto, svolge un sapiente lavoro di accompagnamento.C’è da “non buttare via il bambino con l’acqua sporca”, c’è da capire come intrecciare il forte impegno sociale, il sogno di un grande riformismo con la capacità di rimettere insieme un’associazione che si è frammentata, che sta perdendo identità. Non è un caso se Domenico Rosati, quando assume la guida dell’associazione nel 1976, si definisce «il presidente di un problema».

Ma è un problema che fa discutere, che invita politici e intellettuali a confrontarsi sui temi concreti, che conserva lo sforzo di mantenere un’autonomia culturale e politica, anche senza strappi con la gerarchia. La svolta di Chianciano, nel congresso del 1993 guidato da Giovanni Bianchi, apre una fase costituente che sfocia, poi, nel congresso di Napoli (1996, presidente Franco Pasuello), in un nuovo patto associativo. Il presidente Luigi Bobba rilancia gli incontri nazionali di studio di Vallombrosa. Si valorizzano tutti quegli impegni che, pur tra scossoni e scissioni, non sono mai stati abbandonati. Anzi, le frontiere si aprono, si comincia a discutere di globalizzazione come nuova questione sociale, viene ribadita la scelta internazionale a partire dall’Europa.

Pace, disarmo, cancellazione del debito estero dei Paesi in via di sviluppo e cooperazione sono temi che le Acli declinano in maniera autonoma e originale nel moltiplicarsi di esperienze ecclesiali (“Sentinelle del mattino”, “Retinopera”) e in ambiti plurali, come il cosiddetto “popolo di Porto Alegre”. Un respiro mondiale che non fa, però, mai dimenticare l’Italia e le grandi battaglie per il lavoro, la lotta alla povertà, la difesa del welfare e l’equità fiscale, come provano, è cronaca di questi giorni, le proposte avanzate al Governo Monti da Andrea Olivero, l’attuale presidente delle Acli.

Da cattolici, nel cambiamento: la via del riformismo. Interviene il presidente nazionale delle Acli.

Cosa sarebbe l’Italia senza la riforma agraria di De Gasperi, che ha liquidato i latifondi,  la riforma fiscale di Vanoni, che ha introdotto la progressività delle imposizioni, quella della casa di Fanfani, che ha dato la dignità di un tetto alle famiglie? Quale Costituzione avremmo oggi senza la profezia di La Pira, la passione di Dossetti, il rigore di Lazzati o l’acume di Moro? Il riformismo in Italia nasce da una cultura politica che – forse perduta si nelle aule parlamentari – rimane ben viva e vitale nella società civile e nella comunità. Il cattolicesimo democratico e sociale, nelle sue forme diverse nel tempo, è stato alla base del consolidamento della democrazia e della crescita civile e morale del Paese.

La stagione riformista che si è aperta non ha fatto finora tesoro di questa cultura (come si può notare dai tanti, forse troppi, strappi operati nel tessuto sociale del Paese), ma è nostro compito operare con sollecitudine affinché la situazione cambi. Non si tratta di ridar voce ai cattolici, ma di restituire al Paese quel patrimonio che credenti laici hanno elaborato seguendo il Vangelo e la Dottrina sociale, che può far ritrovare il senso dell’impegno civico e del servizio al bene comune. Il sistema politico italiano, dopo il ventennio berlusconiano, sembra avviato a una rapida evoluzione, per quanto siano ancora piuttosto incerti i tempi e gli esiti.

Sicuramente l’incapacità di rappresentare le istanze del Paese, unita alla perdurante mancanza di rigore etico nell’esercizio delle proprie funzioni, sta condannando una classe politica e insieme sta facendo crescere il disgusto per come le istituzioni trattano il bene comune: e questo a discapito di chi opera onestamentee con passione e della stessa tenuta dellacoesione sociale. Finite le ideologie del Novecento molti sembrano convinti che nonvi sia neppure più spazio per le culture politichee i valori, piegati in una visione riduttivisticadella politica come mera ricerca del consensoe amministrazione dell’esistente.

I nostri concittadini, però, facendo i conti con le tante difficoltà che attanagliano il Paese – dalla disoccupazione e precarietà occupazionale giovanile all’impoverimento, fino al drastico ridimensionamento del nostro sistema di welfare – chiedono di avere risposte che siano, insieme, capaci di cambiare la realtà immediata e di dar vita a un nuovo modello di sviluppo, che non ci porti al consumo smodato dei beni e alla precarietà di vita. Queste risposte, inoltre, non vengono chieste fideisticamente a “tecnici” o “leader carismatici”, ma al processo democratico, che deve ritornare a dare voce ai cittadini stessi, sia pure attraverso rinnovate forme di rappresentanza.

Anche questo è un segnale che si sta chiudendo la lunga stagione della politica personalistica e forse si sta aprendo quella in cui le scelte sono figlie di processi condivisi, forse faticosi, ma certamente più tesi al bene comune. È in questo contesto che si pone, ancora una volta, il ruolo delle Acli e, più in generale, dei cattolici impegnati in ambito civile ed ecclesiale, politico e sociale, chiamati a creare spazi di elaborazione di pensiero e di proposta concreta, di valori e di confronto serrato con la realtà tenendo conto di tutte le sue contraddizioni.


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