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sabato 05 ottobre 2024
 
8 marzo
 

Ottavia Piccolo: «Non si può recitare la giovinezza che non c'è»

07/03/2017  Nel pieno del lavoro al cinema e a teatro racconta sé stessa e le sue donne vere: «Ho iniziato da bambina, era un gioco. Lo è ancora ma si è fatto serio»

Una donna vera, Ottavia Piccolo vista da vicino. Una donna di teatro senz’ombra di teatralità. In un mondo in cui vige la dittatura della giovinezza, i suoi capelli grigi e corti dicono di una sana libertà interiore. Si racconta mentre si trucca, come solo chi non ha artifici da nascondere potrebbe fare, esibendo un sorriso aperto di rara bellezza, contagioso per la sua spontaneità.

Si prepara per Enigma, uno dei due spettacoli di Stefano Massini, diretti da Silvano Piccardi, che ha in corso per i teatri d’Italia; l’altro è Donna non rieducabile, un monologo intensissimo in cui dà volto e voce alla giornalista russa Anna Politkovskaja, che dieci anni fa ha pagato con la vita il suo servizio alla verità.

Il camerino sempre uguale e ogni volta diverso, stanza di vita quotidiana nell’eterno peregrinare dei commedianti, è un luogo dell’anima essenziale come lei, dove l’unico altarino è quello che chiama «il mio altarino», quattro foto sul piano dello specchio: «Mio figlio da piccolo e da grande, mio marito mentre balliamo, l’unica volta che ha ballato credo. I miei genitori».

Sono le certezze che le hanno impedito di sradicarsi in un lavoro brado: «Ho tenuto fede sempre all’insegnamento di mia madre che di teatro e di cinema non sapeva nulla: “Non prendere mai un ruolo pensando ai soldi, accetta solo ruoli che ti piacciano, noi vivremo bene con la pensione di papà”. Mio marito è la persona che più mi ha fatto crescere. Quando s’è posto il problema di dare stabilità a nostro figlio che iniziava la scuola e uno di noi si doveva fermare mi ha detto: “Il mio lavoro di giornalista può diventare stanziale. Vai tu”. Non era scontato. Ha avuto coraggio, da uomo. La sua stima è ancora, 42 anni dopo, la mia forza. La nostra casa al Lido di Venezia è il mio spazio di serenità».

UN GIORNO PER CASO

Ha cominciato bambina, era Helen in Anna dei miracoli, e verrebbe da pensare che il suo primo ruolo di bimba disabile possa aver influenzato il suo sguardo sempre attento ai disagi del mondo: «Non direi, ero piccola, gli 11 anni di 56 anni fa, per me il teatro in quel momento era solo un gioco bellissimo. Era una società in cui la disabilità si nascondeva, tanto che qualcuno scrisse che ero davvero cieca e sordomuta, pensando che non avrei potuto recitare così. Ma sono sempre stata curiosa. Cresciuta in una casa modesta senza libri e uscita presto dalla scuola per via del lavoro, a 15 anni mi sentii inadeguata davanti ai miei primi ruoli classici: e così li leggevo uno via l’altro, facendo una gran marmellata. Tutto Shakespeare, tutto Goldoni, il Gattopardo (a 13 anni era stata la figlia del principe di Salina nel film, ndr). Il teatro mi ha spinto ad aprirmi al mondo, il resto è venuto».

Il gioco è rimasto, ci gioca ancora con la naturalezza di chi ha vestito il travestimento di scena come una seconda pelle, senza avere avuto il tempo di immaginarsi altrove: «Ma è diventato un gioco serio. Una quindicina d’anni fa ho cominciato a sentire una certa stanchezza: i classici hanno ruoli scritti per giovani. Mi sentivo ridicola. Non si può fingere la giovinezza. Quando mi è stato proposto Rosanero, un testo di Roberto Cavosi sulle donne di mafia, mi si è aperto un mondo. Il teatro non può raccontare l’attualità, ma la contemporaneità sì».

Dopo è iniziato il sodalizio professionale con Stefano Massini, dal suo 7 minuti è tratto l’omonimo film di Michele Placido, uscito nel novembre scorso e riproposto in molte sedi in occasione dell'8 marzo: «Per i tempi del teatro e del cinema italiano abbiamo fatto in fretta: tre anni tra spettacolo e film. L’ho sentito come un testo doveroso, nei panni di Bianca ho respirato tanti problemi attuali: i diritti nel lavoro, delle donne soprattutto, le prime che saltano, la crisi di rappresentatività, il conflitto generazionale».

E Anna Politkovskaja è ormai quasi un classico: «Se recito Anna è per far sentire meno soli i vivi esposti come lo era lei senza sentirsi eroi, giornalisti, giudici, non serve andare lontano. Ho un’amica magistrato, minacciata costantemente, per lettera, per e-mail, al telefono, è a lei che penso quando Anna dice quelle cose».

Tutto si tiene, se Ottavia Piccolo non fosse com’è, non sceglierebbe questi spettacoli che vanno dritti alla sostanza: un teatro ridotto all’osso, senza orpelli e per questo potentissimo, un teatro cui è stato levato tutto, tranne l’anima, il volto e la voce.

 
 
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