Padre Paolo Bizzeti.
L’uomo giusto al posto giusto. Il gesuita padre Paolo Bizzeti, 67 anni, fiorentino, un curriculum di tutto rispetto (esperto di Medio Oriente, rettore della Patavina Residentia Antonianum e direttore del Centro Antonianum per la formazione del laicato a Padova), nominato venerdì 14 agosto da papa Francesco vicario apostolico di Anatolia, la Turchia la conosce bene. «Sono quarant’anni che ci vado almeno un paio di volte l’anno. Accompagno i pellegrini, ma vado anche per piacere personale. È un Paese eccezionale, innanzitutto per la posizione che lo rende la porta dell’Oriente, ma anche perché è ricco di storia, di bellezze paesaggistiche, ed il popolo turco è molto ospitale. Non è un caso che l’imperatore Costantino avesse chiamato Costantinopoli “Nuova Roma”. Insomma, vedo buone prospettive».
Anche sul fronte del rapporto con i musulmani?
«Certo. La Turchia, anche se a stragrande maggioranza musulmana, ha una consolidata tradizione di tolleranza. È un Paese che ha tutti i requisiti affinché anche le minoranze trovino un loro spazio. Tuttavia, sono ben consapevole che non sarà tutto facile, perché problemi ce ne sono, e anche per la collocazione geografica in un’area fortemente instabile».
La regione ecclesiastica compresa nel vicariato apostolico di Anatolia, va da Antiochia all’Oronte e Tarso, luogo di nascita dell’apostolo Paolo - nel profondo sud della Turchia -, fino alle coste del Mar Nero, con le città di Trabzon e Samsun.
Padre Paolo, lei va a colmare il vuoto lasciato da monsignor Luigi Padovese, ucciso nel 2010 per mano del suo autista. Una grande responsabilità.
«Sono molto contento di poter mettermi al servizio di una comunità da cinque anni priva di una guida. Ho registrato questo senso di mancanza ogni volta che sono andato in visita. I religiosi lì presenti mi dicevano: “Ma la Santa Sede si è dimenticata di noi?” In realtà, si tratta di un incarico importante in un luogo impegnativo, quindi per decidere si è reso necessario un tempo lungo».
Da Tarso la vicentina suor Bianca Agnese Trabaldo, anche a nome delle consorelle suor Concetta Mustacciu (sarda) e suor Giuseppina Ballo (milanese), commenta così la nomina di padre Bizzeti: «La notizia, arrivataci alla vigilia dell'Assunta, oltre che essere una sorpresa, ci ha reso veramente felici. Ho avuto modo di sentire padre Paolo al telefono, e l'ho trovato molto sereno e convinto del suo “sì” al Papa. Egli, oltre ad essere un ottimo conoscitore della Turchia, la sente nel cuore e la ama. Lo conosciamo perché è venuto spesso da noi con i pellegrini. I suoi passaggi a Tarso sono sempre stati momenti di forte amicizia e testimonianza. Abbiamo capito che l'Anatolia ritorna ad avere un Pastore buono, dopo i cinque anni di sede vacante. Lo aspettiamo nella preghiera, sicure di quanto ha comunicato a tutti: “Vengo a voi con il sincero desiderio di servire e di imparare dalla vostra coraggiosa vita di cristiani in situazioni spesso difficili. Abbiate misericordia di me!”».
Padre Paolo, che cosa possono fare in Anatolia le poche comunità cristiane?
«Credo che prima di tutto esse debbano custodire la loro identità che affonda le radici nel Nuovo Testamento, e questo è già sufficiente per impegnare una vita. Ma tutto questo va fatto con atteggiamento di dialogo e di rispetto. Credo che veramente sia importante non entrare nella logica del proselitismo, che crea solo difficoltà. È con la vita che si parla».
La comparsa di donne con il velo completo in una città cosmopolita come Istanbul, dà l’idea che la Turchia si stia radicalizzando.
«Sicuramente c’è una situazione che sta evolvendo. Però direi che la stragrande maggioranza della popolazione turca è per la convivenza e la democrazia. Frange estremiste oggigiorno ce ne sono un po’ dovunque, integralisti, che non vogliono entrare in contatto con lo straniero. È un problema ormai globalizzato, così come lo è quello del fondamentalismo».
Ad Antiochia, in sinagoga si legge la Torah in greco, nella chiesa dei greci si prega in arabo, in quella cattolica si usa il turco e alla messa di Natale non è inconsueto vedere in chiesa ragazze velate.
«In quella porzione di Chiesa c’è un ecumenismo all’avanguardia. Si celebra già la Pasqua insieme fra tutti i cristiani. È l’unica via possibile, come dice bene papa Francesco. Per chi ci guarda da fuori, non si può pensare che la stessa domenica di aprile gli uni fanno festa e gli altri piangono. È una situazione che ci rende poco credibili. La direzione giusta è ritrovare l’unità nella celebrazione delle grandi feste».
Lo vede realizzabile ovunque?
«Queste cose sono nelle mani degli uomini. Se noi cristiani lo vogliamo, lo realizzeremo».
Lei è il successore di monsignor Padovese, martire, prima c’è stato don Andrea Santoro, ucciso nel 2006. Ha paura?
«Nessuno di noi sa se domani sarà vivo. Bisogna prendere sul serio le parole del Vangelo: “Non sapete né il giorno, né l’ora”. La Turchia non è un luogo tranquillissimo, ma lei mi sa dire quale lo è oggi? Tutti noi dobbiamo cercare di vivere più attaccati alla vita e al presente. Dopo di che, prendiamo dalle mani di Dio ciò che viene».
Proprio ad Iskenderun, sede del vicariato, dove lei andrà a breve (prima dovrà essere nominato vescovo), ci sono i campi profughi siriani. Anche questo è parte dell’impegno delle comunità cristiane.
«Capirò meglio la situazione quando sarò lì. Di sicuro, la Turchia ha aiutato molto, accogliendo due milioni di profughi, fornendo loro assistenza, cibo, alloggi. Qui in Italia ci si spaventa per poche migliaia di persone. La condizione di rifugiato è terribile, le guerre sono terribili. Bisogna smetterla di alimentare il commercio delle armi, e di dare priorità agli interessi economici. Sono scandalizzato da gente che si professa cristiana e poi è così indifferente alle sofferenze di persone che scappano da situazioni tremende. Il Vangelo rimane la norma per tutti. Chi si vuole misurare sul Vangelo, è cristiano; chi non accetta il comando dell’amore, non lo è».
La Chiesa cattolica in Turchia è composta da tre circoscrizioni ecclesiastiche di rito latino: la diocesi di Smirne con oltre 1.300 fedeli, il vicariato apostolico di Istanbul con 15mila fedeli e il vicariato apostolico dell’Anatolia con circa 4.500. In tutto, operano 11 sacerdoti, di cui 4 secolari e 7 regolari. Ci sono, poi, un diacono permanente, 15 religiosi e 11 religiose. Di queste ultime, tre – della congregazione delle Figlie della Chiesa - vivono a Tarso.
Suor Bianca Agnese Trabaldo racconta che cosa significa essere le uniche tre suore cristiane in una città totalmente musulmana. «Qui noi dobbiamo essere testimoni, ma testimoni veraci, con le parole, con piccoli gesti che arrivano al cuore delle persone. Io e le mie sorelle abbiamo imparato ad amare questa piccola, povera, porzione di Chiesa che è l’Anatolia, ma soprattutto abbiamo imparato a soffrire insieme alla gente. Ho vissuto trent’anni in America Latina: ho aperto case, lavorato alla promozione della donna, sono stata in miniera accanto ai minatori. Là ho fatto la missionaria, a Tarso ho imparato a essere missionaria. Qui vivo la gioia di sentirmi cristiana in un Paese islamico. Nella nostra cappella abbiamo un piccolo tabernacolo, l’unico della città. Se ce ne andassimo, anche questo tabernacolo se ne andrebbe con noi. La lampada sempre accesa si spegnerebbe e Tarso sarebbe ancora di più nell’oscurità».