La Santa Sede, da una parte, e la Repubblica Popolare Cinese, dall'altra, hanno reso nota mercoledì la decisione di rinnovare ancora l'Accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi in Cina, siglato la prima volta il 22 settembre 2018 e già rinnovato per due volte nell'ottobre 2020 e nell'ottobre 2022. La novità è che, anziché per un biennio come nella prima approvazione e i due successivi rinnovi, la proroga stavolta raddoppia la durata, da due a quattro anni. In un comunicato, il Vaticano ha annunciato che le due parti, «visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell'Accordo Provvisorio sulla nomina dei vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna». E il Vaticano resta intenzionato «a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la parte cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese». Sull'altro versante, il portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare, Lin Jian, ha affermato che «attraverso amichevoli consultazioni, le due parti hanno deciso di estendere l'accordo per altri quattro anni», rimarcando «l'evoluzione positiva» delle relazioni bilaterali. «Cina e Vaticano», ha aggiunto ancora Lin, «hanno dato valutazioni positive sui risultati dell'attuazione dell'accordo. Le parti manterranno i colloqui con spirito costruttivo e continueranno a promuovere il miglioramento dei legami bilaterali». Il contenuto dell’Accordo è ancora top secret.
Padre Bernardo Cervellera, missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere), già direttore per 18 anni di Asia News e dal 2021 vice parroco della comunità di Santa Teresa di Kowloon, a Hong Kong, è uno dei massimi esperti di Cina in Italia e nel mondo. Era già stato come missionario nell'ex colonia britannica dal 1989 al 1995 e nella Cina continentale dal 1995 al 1997
Padre Cervellera, cosa significa questo rinnovo?
«Che l’accordo venisse prorogato nessuno aveva dubbi: il Papa si è espresso molte volte a favore dell’accordo. La Cina, da parte sua, in un momento difficile per i rapporti col mondo e in particolare con l’occidente, per questioni geopolitiche ed economiche, ci guadagna un’immagine di Paese moderno e alla pari col resto delle nazioni».
La grossa novità è che si è passati da due a quattro anni. Quali sono i motivi?
«Ci sono due ipotesi: la prima è che un periodo di quattro anni lascia tranquilli i delegati a lavorare per un congruo periodo di tempo, senza essere sottomessi alle critiche che ogni due anni si alzano dalla Chiesa, ma anche dalla parte “stalinista-nazionalista” del Partito comunista cinese, che vede il Vaticano come una minaccia, temendo per la Cina un destino simile a quello dell’Unione sovietica. La seconda ipotesti è che quattro anni siano un compromesso: Pechino avrebbe voluto renderlo permanente, ma il Vaticano chiede più garanzie: libertà per i vescovi in arresto, un ufficio a Pechino, una maggiore collaborazione e, magari, il tanto sognato viaggio apostolico di papa Francesco in Cina».
Quale bilancio si può tracciare di questi sei anni di Accordo? Ha funzionato per quanto riguarda la libertà religiosa e di culto dei cattolici in Cina?
«L’Accordo ha funzionato col contagocce e spesso non ha funzionato per nulla. Fino ad ora questa intesa, alla fine di ottobre 2024, ha “prodotto” otto vescovi. Ci sono almeno 40 diocesi cinesi che hanno bisogno di un vescovo. Di questo passo ci vorranno almeno 30 anni per riuscire a dare pastori alla Chiesa cinese. L’accordo non ha funzionato per la libertà religiosa: ci sono ancora vescovi agli arresti domiciliari; tre vescovi nelle mani della polizia; sacerdoti allontanati dal loro servizio pastorale perché non si sottomettono alla “chiesa di Stato”, diventando sostenitori del Partito comunista cinese. Nel Vaticano si auspica la loro liberazione, ma non si riceve alcuna risposta da Pechino. Vi sono anche preti che non possono più esercitare perchè hanno educato giovani al di sotto dei 18 anni, un fatto proibito dal ministero per gli Affari religiosi. In alcuni casi, come per la nomina del vescovo di Shanghai e quella di monsignor Giovanni Peng Weizhao a vescovo per la diocesi dello Jiangxi, non riconosciuta dalla Santa Sede, Pechino ha seguito la sua prassi, senza nemmeno consultare la Santa Sede».
Infatti, uno dei nodi problematici resta la nomina dei vescovi con il caso dell’aprile 2023 in cui la Cina ha nominato in maniera unilaterale l’attuale arcivescovo di Shanghai Shen Bin, poi avallato dal Pontefice. Significa che questo caso è stato “appianato” dalle rispettive diplomazie per arrivare a rinnovare l’Accordo?
«Io credo che il Vaticano sia stato costretto ad “appianare” per salvare l’Accordo stesso. In fondo questo Accordo è un tenue filo di dialogo fra Cina e Santa Sede dopo quasi settant’anni di rapporti mancati e perfino di inimicizia. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa i media del Partito definivano il Vaticano come “il cane randagio del capitalismo”. In cambio la Santa Sede spera che Shen Bin possa aiutare per la riabilitazione di due vescovi ausiliari di Shanghai, monsignor Giuseppe Xing Wenzhi, allontanatosi dal ministero per essere stato “scoperto” insieme ad una donna (un caso montato ad hoc), e monsignor Taddeo Ma Daqin, agli arresti domiciliari a Sheshan, per aver dato le dimissioni dall’Associazione patriottica subito dopo la sua ordinazione episcopale nel 2012».
Nonostante l’Accordo non ci sono ancora relazioni diplomatiche ufficiali tra Santa Sede e Cina dopo la rottura nel 1951. Perché, secondo lei?
«L’Accordo riguarda solo la nomina dei nuovi vescovi. Per un’intesa globale il Vaticano a suo tempo aveva sperato di poter dialogare con la Cina sul riconoscimento dei vescovi sotterranei, nominati dalla Santa Sede, ma non riconosciuti da Pechino; sulla funzione dell’Associazione patriottica che di fatto guida la Chiesa pur non essendo un’associazione di fedeli e sovrasta pure i vescovi; sulla libertà di missione della Chiesa nella società cinese, come chiedeva già nel 2007 Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici cinesi. Su tutti questi temi non vi è stato alcun progresso. Per la Santa Sede i rapporti diplomatici dovrebbero essere allacciati alla fine di tutti questi dialoghi».
Un altro aspetto riguarda Hong Kong dove tra il 2017 e il 2019, durante le proteste contro la repressione, sono stati arrestati diversi esponenti cattolici. Ora la situazione com’è?
«Va detto che questi esponenti cattolici sono stati arrestati non precisamente a causa della loro fede, ma per aver sostenuto il movimento democratico ad Hong Kong, partecipato a dimostrazioni e criticato il Partito comunista cinese. Dopo il varo della legge sulla sicurezza nazionale – voluta da Pechino – alcuni di loro sono anche accusati di avere rapporti con potenze straniere che vogliono far cadere il Partito in Cina. Dopo questa legge e oltre diecimila arresti – molti dei quali riguardanti giovani sotto i 24 anni – la situazione ad Hong Kong è piena di molte cautele e molti silenzi. I processi verso i membri del movimento democratico vanno a rilento e intanto rimangono in prigione da 4-5 anni. Essendo accusati per la sicurezza nazionale, è vietata loro la cauzione, molti di essi vivono in isolamento e i tribunali non hanno una giuria civile, ma solo giudici designati dal governo. Soprattutto i giovani sono depressi e questo li spinge ad emigrare».
La nascita della St. Francis University, prima università cattolica di Hong Kong ufficialmente riconosciuta dal governo locale, è riconducibile, in senso lato, all’Accordo tra Santa Sede e Cina?
«No. Da decenni la Chiesa voleva dotarsi di un’università cattolica, ma ha trovato difficoltà, anche da parte dei governi precedenti. Ora quello che era un Collegio di alti studi, gestito dalla Caritas locale, è stato riconosciuto come università».