«Non separerò mai il mio gregge dalla Santa Sede», aveva risposto monsignor Frano Gjini a Enver Hoxha, dittatore del Paese, che gli chiedeva di staccarsi da Roma e costruire una Chiesa patriottica albanese. Proprio per questo fu torturato e, nel 1948, condannato a morte e ucciso. «Viva cristo Re, Viva l’Albania», furono le sue ultime parole davanti al plotone che lo stava fucilando. Le stesse del gesuita Giovanni Fausti, vice provinciale dell’Albania, e dei suoi compagni di nartirio, fucilati il 4 marzo del 1946 dietro il cimitero di Scutari. Precursore del dialogo islamo cristiano, il gesuita, di origini bresciane, aveva insegnato filosofia all’università di Scutari e, dopo aver imparato la lingua albanese, aveva studiato approfonditamente l’islam proprio per avviare un dialogo serio tra le comunità e per dar vita alla Lega “Amici oriente islamico”, diffusa in Italia e all’estero.
Dopo essere rientrato in Italia e dopo una severa malattia polmonare,
padre Fausti era tornato in Albania nel 1942 quando i suoi superiori gli avevano affidato il
compito di Rettore del Pontificio Seminario di Scutari e
dell’annesso Collegio Saveriano. Solo un anno dopo si era trasferito a
Tirana lasciando l’incarico a un confratello albanese, padre Daniel
Dajani, che verrà arrestato e ucciso con lui. L’idea è quella di
assistere gli italiani e gli albanesi, sia cristiani che musulmani,
coinvolti nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Accusato di
essere un politicante traditore della nazione, viene prima arrestato e
poi ucciso insieme con padre Daniel, e altri confratelli e seminaristi
gesuiti.
La sua foto, insieme con quella di altri 39 martiri, giganteggiava lungo il viale dei Martiri per la patria in vista della visita di Papa Francesco. Tutti uomini e un’unica donna, Maria Tuci, alla quale il suo torturatore, prima di stuprarla disse: «Ti ridurrò in modo che neppure i tuoi parenti ti riconosceranno».
La repressione contro i cattolici, ma anche contro gli ortodossi e i musulmani, fu durissima. Al primo sacerdote ucciso, don Lazër Shantoja, furono spezzati mani e piedi, don Lekë Sirdani e don Pjetër Çuni furono affogati immergendoli a testa in giù in un pozzo nero, A padre Serafin Koda fu tagliata la gola e tirata fuori la laringe, papas Josif, sacerdote cattolico di rito bizantino, fu sepolto vivo nel fango. Padre Frano Kiri fu legato per tre giorni a un cadavere, padre Gjon Karma chiuso vivo in una bara… Nonostante le atrocità e le torture, i cristiani continuavano a non rinnegare la propria fede. «Gridavano viva il Papa, viva l’Albania, viva Cristo re», raccontano al Papa prima dell’incontro con il clero e i religiosi locali. Al termine della persecuzione restavano in Albania, appena 33 sacerdoti vivi, molti di loro sopravvissuti a torture e lavori forzati, come ha raccontato al Papa don Ernst Simoni, mettendosi poi in ginocchio davanti a lui.
Con padre Giovanni Fausti ricordiamo tutti i 40 martiri albanesi per i quali è in corso la causa di beatificazione:
i vescovi Vincent Prennushi e Fran Gjini;
i sacerdoti Mark Fran Gjani ; Serafin Koda, Pjetër Çuni , Alfons Tracki, Anton Muzaj; Anton Zogaj; Berernadin Palaj; Ciprian Nikaj; Daniel Dajani; Dede Maçaj, Dede Malaj, Dede Plani, Ejell Deda, Gasper Suma, Giovanni Fausti, Gjon Gazulli, Gjon Pantalia, Gjon Shllaku, Jack Bushati, Josef Marxen, Josif Papamihali , Jul Bonati, Karl Sereqi, Lazer Shantoja, Lek (Alexander Sirdani), Luigj Paliq, Luigj Prendushi, Marin Shkurti, Mati Prendushi, Mikel Beltoja, Ndoc Suma, Ndre Zadeja, Shtjefen Kurti,
il seminarista Mark Çuni,
i laici Fran Mirakaj, Gjelosh Lulashi, Sadik Qerim
e l’unica donna Maria Tuci.