Sopra e in alto: alcuni scorci di Nairobi (Kenya), In copertina: Bangui (Repubblica Centrafricana). Le foto di questo servizio sono dell'agenzia Reuters
Forse mai come oggi s’impone una riflessione su quanto sta avvenendo nel vasto continente africano. Mentre scriviamo, macroregioni come il Corno d’Africa e l’Africa Occidentale sono sempre più vulnerabili all’insicurezza e alle crisi alimentari, i cui segnali di allarme, a seguito del global warming, stanno crescendo a livello globale. Come se non bastasse, vasti settori del continente africano, sono interessati (e non da oggi) dal fenomeno del jihadismo, in particolare nella fascia saheliana (come ad esempio in Burkina Faso e nel nord della Nigeria), nel settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, in Somalia e nel provincia settentrionale del Mozambico, denominata Cabo Delgado.
Stiamo parlando — è bene rammentarlo — di un continente giovane (oggi, un africano su due ha meno di 18 anni) con oltre 1,3 miliardi di abitanti. A metà di questo secolo, la popolazione mondiale vivrà per il 25 per cento in Africa (era il 13 per cento nel 1995 e il 16 per cento nel 2015) e solo per il 5 per cento in Europa. Il fatto che questo continente venga continuamente messo alla prova da pandemie d’ogni genere (ultima il Covid-19, per non parlare delle malattie tropicali neglette e tante altre come Aids, Tbc e malaria) e che sia spesso ostaggio della speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari e le fonti energetiche, la dice lunga.
Da rilevare che la guerra attualmente in corso a seguito dell’invasione russa in territorio ucraino sta suscitando grande preoccupazione tra gli osservatori, per il forte impatto economico che sta avendo sull’Africa, vanificando la traiettoria di ripresa post-pandemica che doveva profilarsi con il sostegno dei grandi attori internazionali. L’Africa, già nel passato, ha fatto fronte a crisi economiche di vario genere, superandole a testa alta — e questo è di buon auspicio — ciò non toglie che occorre essere comunque realisti. Ad esempio, l’Africa Continental Free Trade Area (Afcfta), entrato in vigore formalmente il primo gennaio 2021, sta subendo forti contraccolpi proprio in quella che doveva essere la sua fase di lancio. Si tratta di un’area di libero scambio che è condizionata dalla crisi economica che, nell’attuale congiuntura, attanaglia molti Paesi del continente. Al momento, risultano ratificati gli strumenti giuridici dell’Afcfta (i protocolli sugli scambi di beni e servizi e sulle risoluzioni delle controversie), mentre sono tuttora in corso i negoziati sulle regole di origine dei prodotti, vale a dire quelle normative che preciseranno quali merci beneficeranno del trattamento preferenziale nell’ambito del mercato comune. Questa iniziativa è stata fortemente voluta dai leader africani con l’intento di disegnare una nuova geografia economica a livello continentale.
Purtroppo, in considerazione di quanto sta avvenendo nell’Europa orientale, i grandi player internazionali stanno incontrando non poche difficoltà nel sostenere il processo del libero scambio delle merci in Africa attraverso investimenti, commercio e assistenza. È evidente che il focus dei grandi investitori stranieri, in questi anni, è stato tutto concentrato sulle materie prime africane, anche se poi l’industrializzazione dell’Africa, prevista dall’implementazione dell’Afcfta, esige investimenti per rendere produttivi i singoli Paesi africani.
A questo proposito, è bene ricordare l’opinione di Basil El-Baz fondatore, chairman e chief executive della Carbon Holdings il quale pubblicò il 30 aprile del 2020 sul Financial Times delle previsioni che potrebbero avere effetti benefici sull’Afcfta di cui sopra. Secondo El-Baz, entro 50 anni l’etichetta made in Africa prenderà il posto della più nota dicitura made in China. Questo in sostanza significherebbe che i prodotti cinesi a basso costo, quelli cioè che in questi anni hanno congestionato il mercato dei Paesi occidentali, saranno sostituiti da quelli africani. L’Africa dunque potrebbe arrivare e basare la propria economia non solo sulle esportazioni di materie prime, ma anche sui beni a basso costo, seguendo proprio l’esempio della Cina. Bisogna però dire che, almeno per ora, questi desiderata non hanno trovato un felice riscontro dal punto di vista operativo, non solo per la crisi ucraina, ma anche per le dinamiche complesse e in prospettiva difficilmente prevedibili all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
Lagos (Nigeria). Foto Reuters.
La vera sfida — e qui sono chiamati in causa, oltre alla Cina, anche la UE, gli Stati Uniti e gli altri principali attori internazionali — è quella di promuovere l’industrializzazione dell’Africa che attualmente rappresenta appena l’1,9 per cento del valore aggiunto globale dell’industria manifatturiera, mentre il commercio intra-africano rappresenta solo il 2 per cento circa del commercio globale. Qualora l’Afcfta dovesse effettivamente decollare, come si spera, le prospettive potrebbero essere molto positive; ma al momento, l’incertezza pesa sul futuro come una spada di Damocle. Il malessere che attanaglia la Nigeria è sintomatico degli squilibri che affliggono il continente. Stiamo parlando, in questa fattispecie, di un Paese che galleggia sul petrolio, con straordinarie potenzialità. Ciò nonostante esso è ostaggio della violenza. Emblematica è stata la recente uccisione di padre John Mark Cheitnum, rapito assieme ad un altro sacerdote cattolico, Donatus Cleopas, nel pomeriggio del 15 luglio scorso, mentre si stavano recando a una funzione nella parrocchia di Gure nella diocesi di Kafanchan. In un comunicato, le autorità diocesane hanno spiegato che padre Cleophas è riuscito a fuggire dai sequestratori e si è riunito ai confratelli, mentre padre Cheitnum è stato assassinato. Si è trattato dell’ultimo sequestro di una lunga serie, finito crudelmente, perpetrato a scopo di estorsione. Come ha spiegato recentemente alla Radio Vaticana il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo emerito dell’arcidiocesi di Abuja, commentando il massacro di Owo, avvenuto la domenica di Pentecoste, c’è poca fiducia, da parte della gente nella capacità delle autorità locali di «condurre indagini adeguate».
In effetti, è proprio nei meandri della politica nigeriana che si concentrano a volte le complicità. Questo concretamente significa riportare la legalità nella pubblica amministrazione, regolare il business dell’oro nero dove sono riscontrabili gli appetiti stranieri (quelli delle multinazionali petrolifere) e fare piazza pulita dei corrotti nei ranghi delle forze armate e dell’intelligence. Questi sono i presupposti necessari per vincere la battaglia contro il terrorismo. È importante considerare comunque che l’attuale congiuntura internazionale sta portando alla ribalta il posizionamento dei governi africani nell’arena globale. Benché la geopolitica africana appaia condizionata dalle mutevoli relazioni con l’Occidente da una parte e il cartello dei BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) dall’altra, non è facile fare previsioni. Anche perché i cinque membri attuali dei Brics mirano ad un allargamento del club, che qualcuno chiama già Brics plus, cercando di coinvolgere Paesi come Argentina, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Kazakhstan, Nigeria, Senegal e Thailandia. Da rilevare che, in effetti, la lista dei potrebbe essere molto più lunga e includere, per quanto concerne l’Africa, non solo l’Egitto, la Nigeria e il Senegal, ma anche tanti altri Paesi africani che intrattengono proficue attività economiche e diplomatiche con l’aggregato geoeconomico delle potenze emergenti.
Sebbene sia ancora prematuro disegnare i futuri scenari all’interno dei quali si porrà l’Africa, non è esagerato ipotizzare un posizionamento del continente africano all’interno di un possibile ordine mondiale multipolare, cosa che francamente minerebbe l’auspicato multilateralismo della fraternità tanto caro a Papa Francesco e ben espresso dal Santo Padre nel discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede lo scorso 10 gennaio: «La questione migratoria, come anche la pandemia e il cambiamento climatico, mostrano chiaramente che nessuno si può salvare da sé, ossia che le grandi sfide del nostro tempo sono tutte globali. Desta perciò preoccupazione constatare che di fronte a una maggiore interconnessione dei problemi, vada crescendo una più ampia frammentazione delle soluzioni. Non di rado si riscontra una mancanza di volontà nel voler aprire finestre di dialogo e spiragli di fraternità, e questo finisce per alimentare ulteriori tensioni e divisioni, nonché un generale senso di incertezza e instabilità. Occorre, invece, recuperare il senso della nostra comune identità di unica famiglia umana».
Una cosa è certa. È necessario andare al di là dei luoghi comuni perché l’Africa non è povera, semmai è impoverita. Peraltro, a scanso di equivoci, è bene ricordare che questo continente, tre volte l’Europa, è quello in cui l’homo sapiens mosse i suoi primi passi per poi migrare in tutto il pianeta; motivo per cui viene considerato dagli studiosi la «culla dell’umanità». Poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica, galassia di etnie fatte di volti con le loro storie da scoprire, l’Africa merita sempre e comunque rispetto.
Ed è proprio per questo motivo che papa Francesco, in un videomessaggio inviato ai partecipanti al secondo Congresso cattolico panafricano di teologia, società e vita pastorale in corso a Nairobi, in Kenya, presso l’Università Cattolica dell’Africa Orientale, fino al 22 luglio, ha esclamato: «L’Africa ci sorprende sempre. Tira fuori il meglio di te in queste riflessioni affinché il risultato sia una sorpresa, affinché possa nascere quella creazione africana che sorprende tutti noi. Perché l’Africa è poesia». Sagge parole che, con la collaborazione di tutti, non possono essere disattese.