Sorprende la lucidità drammatica: una donna, cittadina americana di 29 anni, malata di cancro al cervello, programma la propria morte, addirittura fissa il giorno del ricorso all’eutanasia.
Di fronte a simili drammi, nessuno può pretendere di giudicare la persona, il grado di libertà-responsabilità di decisioni così estreme. Il giudizio ultimo è affidato alla coscienza e, se credente, a Dio, giusto e misericordioso giudice.
Ci si interroga, tuttavia, sulle molteplici cause che hanno contribuito a dare largo consenso all’eutanasia. L’eclisse del senso religioso (trascendente) riporta questi eventi sotto il dominio umano; parametri e criteri valutano il senso/non senso dell’esistenza in termini di efficienza e utilità; la ricerca della qualità della vita rende incapaci di capirne il valore in situazioni limite. Si apprezza la vita, ma a certe condizioni e se ha certe qualità e, così, la sofferenza senza speranza appare come uno scacco insopportabile, da cui liberarsi a ogni costo.
La comunità cristiana non può limitarsi a ribadire il divieto incondizionato dell’eutanasia. Deve sentirsi provocata ad aggredire con il suo dire e, soprattutto, con il suo fare, il contesto globale entro il quale tali tragiche decisioni appaiono, a molti, l’unica via di uscita. I problemi della vita, l’infelicità, la solitudine, non si risolvono con il darsi o dare la morte.
Le cliniche della morte sono espressione di una società incapace di rispondere in altro modo a chi chiede di morire; lanciano un messaggio nefasto al mondo della sofferenza e della solitudine; fanno passare per legittima, e doverosamente da assecondare, una domanda che altro non è che il grido del disperato; falsificano e snaturano il ruolo del medico e le strutture ospedaliere.