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«Padre nostro e Gloria: che ambaradan per due frasi!»

23/11/2018 

Vorrei esprimere una mia considerazione. Si sta parlando di alcuni cambiamenti nel Padre Nostro e nel Gloria, e fin qui va bene. Ciò che però mi fa rimanere perplessa è tutto l’“ambaradan” dietro a queste brevissime frasi cambiate nelle due preghiere.

Quando da ragazzina seguivo il catechismo, immaginavo che il Padre Nostro fosse stato dettato da Dio facendo arrivare con la voce le sue parole dal cielo al nostro mondo terreno. In pratica, una rivisitazione più visibile e udibile dello Spirito Santo, anche perché in diversi film biblici hanno raffigurato così la comunicazione fra Dio e il profeta o santo di turno. Ora, leggendo che le brevi frasi aggiunte seguono lo stesso iter burocratico che di prassi si attua nelle aziende quando si stendono dei verbali (non solo per i contratti...) mi stanno sorgendo alcune perplessità.

Nei cambiamenti di queste due preghiere non riesco ad avvertire “l’ispirazione dal cuore” che avviene in ognuno di noi, quando si comunica con Dio anche attraverso le preghiere che ci sono state insegnate sin da bambini e non solo con nostre spontanee esternazioni. Personalmente, quando prego, aggiungo frasi che appunto mi arrivano dal cuore e soffermandomi su alcuni punti, in base alle emozioni e necessità del momento (il «rimetti a noi i nostri debiti» lo “curo” molto quando mi è difficile perdonare qualcuno!). Nel Gloria aggiungo sempre la parola Madre: «Gloria al Padre, alla Madre, al Figlio...». Da quando ho letto questa formula nelle orazioni dedicate alla Madonna di Guadalupe, spontaneamente l’ho “adottata”. Perché trovo più completo così il Gloria.

Non mi dilungo poi con ciò che integro nell’Ave Maria o nel Padre Nostro, ecc. Perché il Vaticano con a capo il Santo Padre invece di continuare a “concedere” termini nuovi nelle preghiere che i cattolici conoscono, non stimola invece i fedeli a maturare un dialogo anche più maturo, diretto e responsabile con Dio? Facendo invece pensare che anche per due parole di numero, cambiate nelle canoniche preghiere, bisogna ricevere il permesso dal Santo Padre e commissione vaticana al seguito. Così per me è come “tenere sotto” i credenti. Queste “concessioni” le considero ancora come un retaggio di un clero medioevale! Ma sopra di noi esseri umani c’è solo Dio. Per i laici come per i rappresentanti del Vaticano. Ho scritto Vaticano o clero e non Chiesa, perché la Chiesa, come ci ha insegnato Gesù, è tutta l’umanità presente nel mondo che segue Dio attraverso Cristo.

SARA SIRENI

Cara Sara, grazie per la tua lettera, che forse esprime la perplessità di altri fedeli. Mi permetto, però, di fare alcune precisazioni, rimandando per una riflessione sul cambiamento del Padre Nostro all’intervento di don Silvano Sirboni.

La recente assemblea dei vescovi italiani, che si è conclusa il 15 novembre, ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale romano. All’interno del Messale ci sono anche le preghiere del Padre Nostro e del Gloria (quello che si recita nella Messa e inizia con «Gloria a Dio nell’alto dei cieli»). Le frasi nuove sono le seguenti: «Non abbandonarci alla tentazione» e «Pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Per il momento, tuttavia, le nostre assemblee liturgiche devono continuare a usare le formule attuali. Infatti la traduzione del Messale sarà ora sottoposta alla Santa Sede, che fa capo al Papa, e soltanto dopo entrerà in vigore ufficialmente. Tutta questa procedura può dare l’impressione di essere troppo “burocratica”, ma in realtà indica l’importanza che i testi della liturgia hanno per la Chiesa, cioè per tutti i fedeli. Quando si prega insieme, in particolare durante la Messa domenicale, è bene infatti farlo all’unisono, come se fossimo una voce sola, segno del nostro essere un cuore solo e un’anima sola, uniti nella comunione e nella lode al Signore.

Perché, però, cambiare le parole di preghiere che abbiamo appreso fin dall’infanzia in un certo modo? Certo, siamo tutti affezionati a quello che abbiamo imparato, ma dovremmo umilmente ricordare che si tratta sempre della traduzione di un testo originale greco, pronunciato da Gesù probabilmente in aramaico. Tra l’altro, la versione italiana è modellata sul latino, che usa l’espressione «ne nos inducas in tentationem», da cui deriva il termine “indurre”. In latino vuol dire semplicemente, come nel greco, «portare dentro», mentre in italiano ha un senso più costrittivo, come se fosse un’istigazione da parte di Dio a farci cadere. In breve, la nuova traduzione è molto più chiara e fa comprendere meglio il senso del testo originale che Gesù ci ha consegnato.

A proposito di nostalgia dell’infanzia, mi ha colpito, cara Sara, la tua idea di una preghiera dettata direttamente da Dio come una voce dall’alto. Un’immagine molto poetica, ma che non corrisponde al vero. Certe immagini infantili, una volta cresciuti nella fede e in età, dovrebbero essere superate. Certo, le parole del Padre Nostro ce le ha insegnate Gesù, il Figlio di Dio. Eppure ci sono state tramandate da esseri umani come noi, benché ispirati dallo Spirito Santo. Dello stesso Padre Nostro si trovano nei Vangeli due versioni ben diverse tra loro, quella di Matteo (6,9-13) e quella di Luca (11,2-4).

Un’ultima considerazione va fatta sulla preghiera personale. La Chiesa, in cui sono compresi anche il clero e la Santa Sede, in realtà ci stimola a quella preghiera che tu definisci, cara Sara, matura, diretta, responsabile. Papa Francesco lo ha fatto più volte. La preghiera è dialogo con Dio, non può che venire dal cuore ed esprimersi con le parole che ci detta il nostro amore per lui. Le formule sono solo un aiuto. Tuttavia, converrai con me, quando si prega insieme è bene che usiamo tutti le stesse parole. Nel nostro dialogo a tu per tu con il Signore possiamo usare le espressioni che vogliamo. Solo un appunto: non mi risulta che nella preghiera alla Madonna di Guadalupe si aggiunga un «gloria alla Madre». Questa variante è un errore teologico perché può far sembrare che Maria sia una dea accanto alla Trinità Santissima. La Vergine è solo una creatura, la più umile e la più alta, come scriveva il poeta Dante. A lei possiamo rivolgerci con fiducia come Madre di Dio e Madre nostra, certi della sua intercessione presso il suo Figlio Gesù Cristo.

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