Se potesse, le parole le lascerebbe agli altri. Mani da muratore, occhi azzurri, chioma bianca, padre Pedro Opeka porta con leggerezza le rughe dei suoi 70 anni sul volto segnato dal sole. «Dobbiamo dare concretezza a ciò che diciamo sulla povertà», dichiara. Da 48 anni, confida, ogni giorno sente le stesse dieci frasi, ripetute all’infinito: «Ho fame»; «Sono malato»; «Dammi un lavoro»; «Non ho casa»; «Mio marito mi ha picchiato»; «Mio figlio non va a scuola»; «Prestami dei soldi»; «Aiutami con l’affitto»; «Vivo in una casa con altre quattro-cinque famiglie».
«Questo è il mio vocabolario quotidiano. E quando mi trovo davanti alle telecamere chiedo aiuto allo Spirito Santo. Non so parlare, ma so impegnarmi». Una mano dall’alto, probabilmente, non gli viene negata, visto quello che questo missionario vincenziano è riuscito a creare ad Antananarivo, la capitale del Madagascar. Akamasoa è una piccola città, a ridosso della grande discarica, dove vivono circa 25 mila persone. Gli adulti lavorano, i bambini vanno a scuola, fanno sport – partecipando anche a competizioni agonistiche a livello nazionale – e frequentano gli spazi di socializzazione. Con angoli di preghiera di cui anche la Conferenza episcopale malgascia ha usufruito per i propri ritiri. In 30 anni sono stati costruiti diciotto villaggi, con case di mattoni e strade lastricate. Un migliaio di persone vive in ognuno dei villaggi, che hanno negozi, officine, fontane, illuminazione, scuole, asili nido e centri sanitari, un ospedale, uffici amministrativi, sale riunioni, campi sportivi e luoghi di culto. Tutti gli abitanti di Akamasoa – che vuol dire «I buoni amici» – lavorano e la comunità in ogni villaggio gestisce il proprio governo locale.
Padre Opeka racconta che la sua vita in Madagascar è divisa in due parti. Quando la congregazione missionaria di cui fa parte, un ramo della San Vincenzo de’ Paoli, lo destina nel Paese africano, passa i primi 15 anni con i contadini del Sud-Est, a lavorare nei campi di riso, dove impara il malgascio. Si ammala e lo spediscono a dirigere il seminario. Siamo nel 1989. Nella capitale scopre la grande discarica della spazzatura dove «centinaia di angeli si aggiravano rovistando nell’immondizia. Non potevo accettare l’ingiustizia che vedevo intorno a me: tanti bambini, donne, poveri che morivano, di fame o malattie». Il religioso decide di fare qualcosa, ma per guadagnarsi la fiducia del popolo della discarica deve prima di tutto «lottare contro il pregiudizio che avevano verso di me perché sono bianco, il colore dei colonizzatori».
Pedro passa una notte in preghiera chiedendo illuminazione sul da farsi. Quando torna alla discarica è la stessa gente che gli chiede di parlare. Lo portano in una baracca di carta e plastica, alta un metro e 30 centimetri. «Ci mettemmo seduti per terra, in cerchio, e lì nacque il primo nucleo del movimento. Dopo 30 anni c’è una città».
Padre Opeka si mette a fianco di persone che «il governo e la popolazione non volevano neanche sentir nominare: gli alcolizzati, le prostitute, gli ex carcerati, il popolo dell’immondizia». Capisce che la prima cosa è dare un lavoro a coloro che gli danno fiducia e rendere autonoma l’associazione. Nasce così l’idea di sfruttare la cava di granito che sorge accanto alla discarica: «Abbiamo preso in mano picconi e martelli, abbiamo aperto una miniera per estrarre il granito, che poi abbiamo rivenduto alle imprese di costruzione e utilizzato per costruire le nostre case». La miniera dà lavoro agli abitanti di Akamasoa e finanzia gran parte dei servizi collettivi.
FIGLIO DI EMIGRATI
Padre Pedro è nato in Argentina due mesi dopo l’arrivo dei genitori, Maria e Luigi Opeka, che avevano abbandonato la Slovenia per scappare alla persecuzione dei cristiani da parte del regime comunista. Ha imparato a usare martello e scalpello dal papà muratore, e ha sempre considerato fondamentale, per il suo ministero, guadagnarsi da vivere. Così fa il formatore, lavora nella discarica e ogni tanto gira il mondo per coinvolgere organizzazioni non governative e governi nel sostegno ai progetti che ha realizzato per la sua famiglia allargata. «Quando la gente sa che lavori con i poveri i soldi arrivano e tutti danno il proprio appoggio. Non sono mai tornato a casa a mani vuote». Da parte del governo malgascio ha qualche aiuto? «Lo Stato ha i mezzi, ma non vuole guardare in faccia il problema. È una vergogna che ci siano grandi agglomerati dove si vive in modo disumano. C’è gente che cammina sui tappeti e chi non ha acqua potabile», risponde Opeka.
La sua storia è segnata da tanti ricordi, ogni giorno è un’antologia di vicende più o meno “importanti” da consegnare a sera al Signore, nella preghiera. «Una volta abbiamo accettato ad Akamasoa più di 80 famiglie e ognuna aveva cinque o sei figli. Le abbiamo accolte con la massima serenità e spontaneità. Ho pensato tra me e me: “Queste famiglie sono qui; dobbiamo fare spazio per loro”. Lo abbiamo fatto senza lasciarci prendere dal panico, senza pressioni. E questa esperienza è diventata in seguito una fonte di forza per me». Un’altra immagine è di grande gioia: «Ricordo quando abbiamo festeggiato il venticinquesimo anniversario di Akamasoa: la gioia senza limiti di 30 mila persone, orgogliose delle loro opere, orgogliose di essere a testa alta davanti a rappresentanti del governo e diplomatici e di mostrare la loro gioia di vivere. La comunione che abbiamo avuto in quel giorno è ancora un altro ricordo che rimarrà con me per sempre. Abbiamo anche ricordi profondamente tristi, legati ai bambini e alle giovani madri che sono morti a causa della mancanza di medicinali adeguati».
Di passaggio a Roma nell’ambito del giubileo vincenziano, il 28 maggio Opeka è stato ricevuto da papa Francesco. Un incontro diretto, coerente con la personalità dei due uomini. «Quando si è aperta la porta, mi ha detto: “Pedro, come stai? I vescovi del Madagascar mi hanno parlato di te. Hai pensato a chi ti sostituirà?”». Una domanda che dice tanto anche del rapporto di Francesco con la vita: «La morte non gli fa paura. Viviamo per compiere una missione e dobbiamo pensare a chi ci succederà nella lotta all’ingiustizia». Il progetto, quando passerà la mano, si staglia ben chiaro: «Con Akamasoa abbiamo dimostrato che la povertà non è una fatalità. Bisogna crederci e impegnarsi con i poveri».
Quanto al Papa, «sapendo che i vescovi del Madagascar l’hanno invitato per l’anno prossimo, ne ho approfittato per chiedergli di visitare il villaggio di Akamasoa dove con il lavoro, l’educazione e la disciplina si contrasta l’estrema povertà. Ho visto sul suo volto un sorriso di consenso. Lì vedrà la gioia dei nostri bambini che lo stanno aspettando».