Padre Pizzaballa con papa Francesco e Shimon Peres (Ansa).
Un anno drammatico e sconvolgente. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, è convinto che il 2014 segni uno spartiacque: «Nulla sarà come prima». Perché? «La nascita del Califfato ha cambiato le carte e le regole del gioco. L’Isis ha segnato una grande trasformazione nei rapporti tra i musulmani e poi tra essi e i cristiani. Bisogna essere molto attenti nelle analisi per evitare semplificazione e oblio. È prima di tutto una guerra tra musulmani, cioè tra sunniti e sciiti e i loro rispettivi riferimenti internazionali e religiosi. I cristiani non sono il primo obiettivo del Califfato del terrore, ma come molti altri sono diventati obiettivo di una guerra atroce, che ha legami di diverso genere con l’Occidente e con vari interessi».
Ma i musulmani hanno comunque condannato l’Isis.
«Questa è un’altra grande novità e per questo dico che nulla sarà più come prima. La condanna pronunciata dalla grande Università di Al-Azhar del Cairo, il maggior centro di cultura islamica del mondo, è stata una reazione non scontata, che ha rafforzato anche le altre minoranze religiose. Oggi sono tutti meno timidi in Medio Oriente».
Anche papa Francesco ha fatto la differenza?
«Penso di sì. Non si parla più di scontro di civiltà, che era quasi un modo per giustificare degli avvenimenti, ma si insiste sul dialogo, si guarda negli occhi l’interlocutore chiunque esso sia, anche l’Isis. Lo stile del Papa indica una strada possibile di soluzione del conflitto».
I cristiani come stanno?
«Male, ma sono più forti. Hanno abbandonato una sorta di timidezza negativa. La persecuzione ha aumentato il coraggio».
Lei vede soluzioni?
«No, dobbiamo aspettarci un lungo periodo di instabilità e di tensioni anche drammatiche. La mia speranza è che nasca una reazione forte tra le stesse popolazioni del Medio Oriente con un rifiuto netto della commistione velenosa tra fede politica e nazionalità che sta rovinando questi Paesi e, a volte, quello che resta di loro».
Qualche segnale c’è?
«Sì, qualcosa si vede nelle attività di piccoli gruppi, gente povera ma testarda e cocciuta che porta avanti discussioni, confronti, dialogo in molti Paesi, compresi Israele e Palestina. Il mio sogno è che queste realtà possano coordinarsi in una rete sovranazionale. E poi è positivo il dibattito sulla cittadinanza, che viene prima delle appartenenze».
E tra Israele e Palestina?
«Niente di nuovo, anzi la situazione di sempre con un’altra guerra a Gaza. I problemi si sa quali sono e le soluzioni anche: confini, insediamenti profughi e questione di Gerusalemme. Ma nessuno ci vuole mette- re mano, anche perché gli accordi possibili sono onerosi per tutti e devono coinvolgere tutti i Paesi dell’area, perché i profughi stanno dappertutto. Ma attualmente questo è un ragionamento impossibile».
A causa del conflitto siriano?
«Sì. La tragedia della Siria conferma che il Medio Oriente non è più quello che abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo. Sono stato due volte in Siria quest’anno e me ne sono reso conto. Una soluzione è difficile da trovare. L’Onu e le grandi organizzazioni internazionali sono assenti e incapaci di gestire una situazione complessa. La comunità internazionale è un soggetto sempre più evanescente. Non credo tuttavia che la soluzione possa essere indicata dall’esterno. È il Medio Oriente che deve trovare una soluzione per sé stesso. Ma prima deve rendersi conto che sta cambiando, che deve fare i conti con la modernità, che deve districare in modo virtuoso l’intreccio incredibile e apparentemente inestricabile tra fedi, nazioni, storie, situazioni sociali vergognose, diritti di persone e popoli calpestati, tribalismo, interessi economici ed energetici. Qualcuno, ripeto, lo sta cominciando a fare. Io sono felice e spero che tante piccole azioni possano insieme elaborare prospettive per il futuro meno nebulose delle attuali».