Un poeta innamorato di
Dio, un animo inquieto,
un religioso fuori dal
gregge: padre David Maria
Turoldo ha rivestito
la sua fede di parole ed
emozioni, rappresentando
un punto di riferimento
anche per tanta gente semplice,
che vibrava con i suoi versi carichi
di ispirata cristianità. Salmi, discorsi,
poesie che possiamo leggere e meditare
grazie alla nuova iniziativa editoriale
del Gruppo San Paolo. Otto
volumi per ricostruire la
figura di David Maria Turoldo. Abbiamo
interpellato la storica toscana
Mariangela Maraviglia, autrice della
più compiuta biografia sul sacerdote,
dal titolo David Maria Turoldo. La vita,
la testimonianza (1916-1992) (Morcelliana,
pp. 464, euro 30).
Lei conosce molto bene la figura
di David Maria Turoldo. Può sintetizzarla
in poche righe?
«La sua vita si snoda lungo gran
parte della storia del Novecento
e ne ripercorre i principali avvenimenti:
si impegnò nella Resistenza
nella Milano degli anni ’40; sostenne
Nomadelfia, la comunità di don Zeno
Saltini, da lui riconosciuta esemplare
società evangelica, nel dopoguerra; fu
attivo nella “mitica” Firenze di Giorgio
La Pira negli anni ’50; contribuì con
passione ai fermenti di rinnovamento
ecclesiali e sociali negli anni ’60, ’70 e
’80. Un impegno instancabile, a cui si
accompagnò una vastissima produzione
di poeta e traduttore dei Salmi».
Può ripercorrere le varie fasi della
sua vita?
«La sua esistenza appare una
continua avventura, segnata da relazioni,
movimenti, “esili”, dettati dal
suo attivismo e dai timori che faceva
sorgere nelle gerarchie ecclesiastiche
preoccupate di salvaguardare l’obbedienza
del “gregge” cristiano. Proveniente
da una povera famiglia friulana,
entrato giovanissimo nell’Ordine
dei Servi di Maria, padre David fu assegnato
nel 1941 al convento di San
Carlo in Milano, dove frequentò l’Università
Cattolica del Sacro Cuore
laureandosi in Filosofia. Vivacità e
iniziative milanesi gli guadagnarono
l’allontanamento forzato da Milano e
un primo “esilio” in Germania (1953-
1954). Ritornato su sua richiesta nella
Firenze negli anni ’50, fu di nuovo
bandito in Inghilterra, con lunghi
periodi di predicazione americana
(1958-1960). Accolto di nuovo in Italia,
nel convento di Santa Maria delle
Grazie di Udine, nel 1960, la sua impellente
vocazione comunicativa lo
spinse a sperimentare il linguaggio
cinematografico con il film Gli ultimi
(1962). Entusiasta del rinnovamento
ecclesiale avviato da papa Giovanni
XXIII e dal Concilio Vaticano II, volle
trasferirsi nella terra natale del Pontefice e, nel 1964, diede avvio, tra le mura
dell’abbazia di Sant’Egidio a Fontanella
di Sotto il Monte (Bergamo), a
un’esperienza comunitaria di religiosi
e laici. Fu protagonista con forti prediche
e scritti delle battaglie e dei movimenti
per la giustizia e per la pace».
David Maria Turoldo ha scritto
moltissimo: saggi, testi teatrali e soprattutto
poesie. Che tipo di poeta è
stato e quale pubblico ha incontrato?
«Quella di Turoldo è una poesia-
confessione di un’anima, “rendiconto
di una esperienza religiosa”,
come egli stesso scriveva, o mediatrice
di lotte e istanze sociali negli anni
della protesta. Questi caratteri ne fecero
il portavoce delle domande e delle
speranze di tanti e ne decretarono
un notevolissimo successo editoriale.
Essendo una poesia poco elaborata
formalmente, non convinse del tutto
molti “addetti ai lavori”, anche se gli
assicurò l’amicizia e l’ammirazione di
poeti riconosciuti come Andrea Zanzotto,
Luciano Erba, Alda Merini, Biagio
Marin».
Lei ha avuto occasione di incontrarlo
di persona? Che impressione
ne ha ricavato?
«Ne avevo l’immagine sfocata di
un lontano ascolto nei convegni della
rivista fiorentina Testimonianze,
amavo molto alcune sue poesie, ma la
vera occasione di incontro con Turoldo
è stata questa biografia che mi ha
permesso di apprezzarne, insieme a
debolezze e contraddizioni, la figura
travolgente e generosa di religioso che
ha vissuto con convinzione la sua vocazione,
spendendosi fino all’ultimo
per un cristianesimo amico dell’uomo
e incarnato nella storia».
Turoldo ha collaborato con figure
di rilievo del mondo cattolico per così
dire “militante”. Che cosa aveva in
comune con personaggi come Primo
Mazzolari e Lorenzo Milani?
«L’amore per il Vangelo, la critica
a tradizioni religiose che apparivano
asfittiche, l’opposizione al clericalismo che sminuiva il ruolo dei laici,
l’insano connubio della fede con la
politica: tutti elementi che per lui
oscuravano la credibilità e la bellezza
del messaggio cristiano, impedendone
la trasmissione».
Era friulano come Pier Paolo Pasolini,
che conobbe. Che rapporto fu
il loro?
«Un’attenzione e una stima a distanza,
con qualche scambio in relazione
ai film girati: Gli ultimi di
Turoldo, Il Vangelo secondo Matteo di
Pasolini. Di Pasolini, Turoldo condivideva
la denuncia culturale e politica e
apprezzava “l’anima religiosa” di “credente
senza fede”, di instancabile cercatore
di un senso profondo della vita.
Quando nel novembre 1975 Pasolini
venne assassinato, Turoldo partecipò
alle sue esequie friulane, leggendo
come orazione funebre una sua lettera
indirizzata alla madre del regista, mostrando
una pietà e una comprensione
che gli attirarono gli strali degli ambienti
più conservatori».
Come si concretizzò il suo tentativo
di mediazione durante il sequestro
di Aldo Moro?
«Turoldo tentò, insieme al confratello
Camillo De Piaz, di instaurare
una trattativa per la liberazione del
presidente della Democrazia Cristiana
sequestrato dalle Brigate rosse,
trattativa che vide coinvolti alcuni
vescovi, tra cui Luigi Bettazzi di Ivrea,
e che non andò in porto per il rifiuto
delle autorità ecclesiastiche romane.
Un rifiuto che padre David interpretò
come una vittoria del partito dei “falchi”
vaticani, preoccupati soprattutto
delle aperture di Moro verso il Partito
comunista e che gli guadagnò la gratitudine
della famiglia dello statista,
amareggiata dal prevalere nelle istituzioni
della “linea dura” che di fatto ne
sacrificò la vita».
Negli ultimi anni di vita lottò contro
un tumore. Anche questa esperienza
fu sublimata nella poesia e
nella sua visione di Dio?
«La sua ultima stagione fu una
ininterrotta testimonianza pubblica
del dolore e della speranza di una
morte cristiana. Quella “teomachia”,
la lotta con Dio perché rompesse il suo
impenetrabile silenzio, da lui condotta
come novello Giacobbe per tutta la
vita, si intensicò nell’ultimo periodo,
restituendo versi toccanti e infine riconosciuti
come poeticamente riusciti
in un’opera come Canti ultimi».
Che cosa ci ha lasciato in eredità?
«Carlo Maria Martini lo definì
“poeta, profeta, disturbatore delle coscienze,
uomo di fede, uomo di Dio,
amico di tutti gli uomini”. È una sintesi
felice di una personalità mai acquiescente,
che condivideva con la Lettera a
Diogneto, da lui molto amata e citata,
l’intento di non essere asservito ai poteri
“del mondo” e conservò come orizzonte
irrinunciabile la ricerca di Dio e
la salvezza dell’uomo».