Il Cairo
Dodici fermate di metro per entrare
in un altro mondo. È una distanza
geografica, ma soprattutto sociale,
culturale, economica, quella che separa
il centro del Cairo, dove vive, dal quartiere
di Esbet el Nakhl, dove lavora. Padre Luciano
Verdoscia la percorre quasi ogni giorno.
Dodici lunghe fermate, in carrozze sovraffollate,
dove la gente trasporta sé stessa e la
fatica di vivere nell’Egitto di oggi. Un Paese in transizione, che esce dal lungo regime di
Hosni Mubarak per affacciarsi su un futuro
alquanto incerto.
Padre Luciano, missionario comboniano
originario di Bari, condivide da 17 anni le
contraddizioni di questo mondo in ebollizione.
Ha partecipato alla rivoluzione, scendendo
in piazza con i giovani e osservandola dalle
finestre di casa, che si affacciano proprio
su alcuni dei luoghi più caldi della rivolta: il
sindacato dei giornalisti, da una parte, e il palazzo
di giustizia dall’altra. E poi l’ha vissuta,
come sempre, accanto ai più poveri tra i poveri,
quelli che è andato a incontrare e ad affiancare
in una delle periferie più degradate del
Cairo: Esbet el Nakhl, appunto, il quartiere
degli zabbalin, i raccoglitori di immondizia.
Sembra un mondo a parte. Casermoni senza
intonaco, tirati su malamente uno accanto
all’altro, viuzze claustrofobiche, dove si affaccia
una vita minuta di piccoli commerci e botteghe
artigianali. Spazzatura dappertutto. Padre Luciano cammina spedito. I suoi piedi conoscono
a memoria queste stradine dissestate. Di
tanto in tanto si ferma a salutare e a scambiare
qualche chiacchiera. E poi, via, sempre di corsa.
Si sofferma un po’ più a lungo con il prete
copto-ortodosso; si conoscono bene, collaborano.
È un quartiere dove ci sono molti cristiani:
gli zabbalin sono quasi tutti copti originari
dell’Alto Egitto. Ma qui, alle elezioni legislative
dello scorso dicembre-gennaio, hanno vinto
i Fratelli musulmani e i salafiti.
Padre Luciano scuote la testa. «C’è molta
povertà, miseria», racconta, «e molta ignoranza.
La maggior parte della gente non ha alcuna
istruzione. Gli zabbalin, oggi, sono quelli
che tutto sommato stanno meglio in questo
quartiere, anche se vivono in condizioni
tutt’altro che dignitose. Molti altri, però, lavorano
letteralmente come schiavi, pagati poco
più di niente: 50 lire egiziane al giorno, quando
va bene, circa 7 euro. Altri ancora affittano
una stanza in questo quartiere, perché costa
meno, e lavorano altrove, sobbarcandosi viaggi
disumani nel traffico infernale del Cairo».
Non è un caso che padre Luciano sia finito
qui. Lui, del resto, non è uomo dalle mezze
misure. Ex sessantottino, ha vissuto sin
dall’inizio la vocazione come dono totale di
sé stesso: «Portare amore, attraverso progetti
di giustizia, ispirato da una filosofia della carità». È finito per cinque anni in una delle zone
più martoriate del Sudan, i Monti Nuba, tra
popolazioni particolarmente perseguitate e
oppresse durante i lunghi anni della guerra civile
che ha opposto Nord e Sud. Poi è “sbarcato”
al Cairo, metropoli tentacolare e caotica di
circa 20 milioni di abitanti, dove si è dedicato
allo studio e al sociale: prima, ha contribuito
a fondare la Dar Comboni, l’Istituto di studi
arabi dove insegna tuttora teologia islamica,
poi si è dedicato al lavoro sociale in uno dei
quartieri più depressi della capitale egiziana.
«Non è stato facile», ammette, «soprattutto
agli inizi. Abbiamo cominciato in un convento
dei Francescani, che ci avevano messo a disposizione
degli spazi. Avevamo circa 150
bambini, cristiani e musulmani, provenienti
da famiglie poverissime e disastrate. Poi lo
Stato è intervenuto e ci ha mandati via, accusandoci
di fare proselitismo. Allora ci siamo
spostati qui, sempre con lo stesso obiettivo:
quello di lavorare con gli ultimi tra gli ultimi,
cercando di contribuire a far crescere una generazione nuova, più istruita, più aperta».
Oggi sono circa 400 i bambini che frequentano
il Centro di padre Luciano, in una struttura
un po’ rabberciata messa a disposizione
dalla Chiesa copta: alcune stanze per lo studio
e una grande sala per i momenti di festa.
Guai, però, a chiamarlo doposcuola. «È qualcosa
di più e di diverso», precisa il missionario.
«Certo, facciamo sostegno scolastico perché
le scuole governative sono un disastro e i
bambini ne escono praticamente analfabeti.
Ma attraverso i bambini incontriamo le famiglie,
portiamo aiuto nei casi di bisogno: nel
nostro staff, oltre agli insegnanti, abbiamo
assistenti sociali, psicologi e un medico.
Quest’anno vorremmo aprire anche un dipartimento
per disabili; ce ne sono moltissimi
e sono un vero dramma per le famiglie povere,
che non sono in grado di occuparsi adeguatamente
di loro».
Padre Luciano è un sognatore e un visionario.
In testa ha una nuova grande struttura,
pensata per un migliaio di bambini, con
annesso dispensario. Più un progetto di cooperative,
per dare uno sbocco lavorativo ai
ragazzi del quartiere, in un Paese dove il tasso
di disoccupazione giovanile è alle stelle.
«Vorrei che fosse un posto bello, curato, perché
anche con la bellezza e con le cose fatte
bene si fa educazione». Per adesso, il grande
spazio su cui dovrebbe sorgere è un enorme
immondezzaio, invaso da sacchi di spazzatura
e maiali. Ci vuole un certo sforzo di fantasia
per immaginare che lì sorgerà presto una
nuova struttura, dove padre Luciano sogna
di trasferirsi a vivere.
«Vogliamo portare in mezzo a questa gente
i valori del Regno, non con le parole, ma attraverso
azioni concrete. Non vogliamo fare demagogia,
ma parlare con le opere di carità. Il
nostro obiettivo di fondo è combattere la povertà
attraverso l’istruzione. È il solo modo
per offrire alle persone strumenti per migliorare
la propria vita, per renderle meno sprovvedute
e manipolabili. Nella miseria trova
fertile terreno il fanatismo e l’intolleranza.
Noi ci opponiamo, cercando di promuovere
il dialogo tra cristiani e musulmani, su basi
concrete, attraverso le opere sociali, favorendo
l’incontro e l’azione concreta».
Tra i bambini sembra tutto più facile. Nella
grande sale del Centro di padre Luciano,
sono in centinaia – cristiani e musulmani, indistinguibili
gli uni dagli altri – a partecipare
a un momento di festa, con scenette divertenti
e distribuzione di doni. «Muslim missihi id
wahda!», hanno gridato in piazza Tahrir i giovani
della rivoluzione. «Musulmani e cristiani
sono una sola mano». In questo quartiere
popolare del Cairo, tra i bambini di padre Luciano,
non sembra impossibile.