Nostro servizio
Framingham, Massachusetts (Usa)
Varcare la soglia della parrocchia di San Tarcisius, la domenica mattina, è come varcare un confine di Stato: dagli Stati Uniti d'America ci si sente trasportati al volo in Brasile. La Messa è celebrata interamente in portoghese, il volume delle risposte e dei canti dei fedeli – anche grazie allo schermo gigante dietro l’altare su cui è proiettata l’intera liturgia - è quasi assordante in confronto alle Messe “normali”, in inglese, dove il Padre Nostro un po’ per la lingua un po’ per il carattere di chi la parla, diventa un sibilante, sussurro collettivo, (in inglese “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” si dice “forgive us our trespasses, as we forgive them that trespass against us”).
Poi, basta guardarsi un attimo intorno per confermare la sensazione, netta ed immediata, di essere entrati in un isola: non solo i banchi pieni, dall’altare alle acquasantiere, – cosa che in genere nelle chiese cattoliche americane ormai si vede solo a Natale, Pasqua e poco più – ma pieni di un po’ di tutto: famiglie numerose, giovani coppie, ragazzi e ragazze vestiti a festa, (con indulgenza a scelte mulitcolore e di vario gusto, che sorprende specie se si confronta il tutto all’ingessata eleganza vittoriana del New England).
Certo la profonda spiritualità del popolo brasiliano è fuor di dubbio; così come, tuttavia, il fatto che qui, in questa cittadina a venti minuti di macchina dal centro di Boston dove ormai le insegne delle churrascarie superano quelli dei fast food, in chiesa si viene anche per motivi che vanno al di là dell’ascolto della Parola di Dio e la condivisione dell’Eucarestia. Per molti, moltissimi, di coloro che ogni weekend affollano i banchi di San Tarcisius, questo rito domenicale rappresenta, un vero e proprio, anche se solo temporaneo, ritorno a casa – necessario da sempre, e di questi tempi più importante e indispensabile che mai.
Si perché se tradizionalmente la Chiesa in America ha fatto da faro e da bussola per gli emigranti “freschi” per cosi’ dire, oggi, con un governo apertamente ostile all’immigrazione – in particolare quella clandestina - diventa a tutti gli effetti un rifugio. “Ogni settimana vengono dalle 1200 alle 1400 persone, dei quali 200 americani: il resto sono tutti brasiliani, almeno la metà dei quali senza documenti. Ce ne sono tanti che sono qui da 20 anni con i figli americani, grazie allo Jus Soli, e ormai americanizzati anche loro, eppure sulla carta completamente illegali. Questa parrocchia non è un punto di riferimento, è “il” punto di riferimento in tutta la zona di Boston, per la comunità di migranti brasiliani”, afferma padre Volmar Scaravelli, parroco di San Tarcisius da 5 anni e principale motore di tutte le attività che vi gravitano intorno, come l’attiguo centro di comunita’ dove si insegna di tutto, dall’inglese e i rudimenti della legge americana, ai seminari per famiglie in crisi , fino ai corsi di calcio e danza – due passatempi a cui i brasiliani non rinunciano, a prescindere dalla nazione di residenza. Si chiama “Brace” acronimo per Brazilian American Center, ma che in inglese molto appropriatamente significa anche “prepararsi, sostenersi, aggrapparsi e mantenersi fermi” verbo molto usato dai media prima degli uragani. Si chiamava così anche prima, ma di sicuro dall’elezione di Donald Trump le raffiche a cui gli immigrati illegali sono esposti sono drammaticamente aumentate in frequenza ed intensità.
“È aumentata la paura. Certo, c’era anche prima. Ma ai tempi di Obama se ti fermavano senza patente, a patto che non avessi altri reati pendenti, pagavi le tasse, ed eri un buon cittadino, ti portavano a corte ti facevano 3 - 400 dollari di multa, perdevi un giorno di lavoro, e ti rimandavano a casa. Adesso invece quando vedono la luce rossa e blu della polizia nello specchietto, diventano rossi e blu anche loro … dalla paura. Il timore, anzi il terrore, è che li rimandino non a casa qui, ma a casa in Brasile, deportati!”
Statura bassa, pizzetto canuto e un energia irrefrenabile, padre Scaravelli – brasiliano di nascita e, nonostante il nome tedesco, di origini italiane (nonni veneti e friulani) come molti nel suo stato di Rio Grande do Sul, traccia in un italiano pressoché perfetto un quadro inquietante della situazione, pratica ma anche e soprattutto psicologica, di una comunità che per la maggior parte sfugge - o meglio sfuggiva fino a qualche tempo fa - ai radar dell’immigrazione USA: secondo uno studio indipendente dell’Università del Massachusetts più di 300,000 brasiliani vivono infatti nella sola zona di Boston e dintorni mentre le cifre ufficiali del censimento del 2010 – in cui il brasile non rientra nemmeno nelle prime 20 nazioni di provenienza - riportano circa lo stesso numero ma applicato all’intero territorio degli Stati Uniti.
“Solo la settimana scorsa, abbiamo fatto un corso su come comportarsi e come organizzarsi in caso di arresto: sono venuti in 250. Vengono anche dal consolato brasiliano a fare i corsi. Prima venivano i funzionari, ogni 15 giorni. Adesso vengono tutte le settimane con psicologi, avvocati e tutto il resto. Noi pubblichiamo il vademecum dell’emigrante, e facciamo anche corsi in proposito, in cui spieghiamo un po’ di tutto, da come regolarsi con il sistema di misure, il sistema fiscale, quello sanitario e dove rivolgersi in caso di bisogno, medico o legale che sia. Lo stato non ci aiuta, ma finora non ci ha neanche ostacolato,. .. finora … finché dura la democrazia. Ma temo, anzi sono sicuro, che questo governo ci vede un po’ come complici.”
“Deportazioni da noi non ci sono state, .. finora!” continua tra il polemico e il preoccupato padre Volmar mentre come è consuetudine nel suo Paese di nascita trasforma gradualmente la tazza di caffè offertami in un pasto praticamente completo. “Cioè a Framingham sono già venuti un paio di volte i famigerati agenti dell’ICE (il servizio immigrazione) ma hanno portato via gente precisa, non hanno fatto retate a casaccio. In chiesa chiaramente non possono venire. Non venivano i militari in Argentina, e i militari in Brasile, figurarsi se vengono gli agenti dell’immigrazione!”
Di fatto questo parroco in un certo senso “di frontiera” non è nuovo alla convivenza con i regimi autoritari: prima la giunta militare nel suo Brasile, poi il governo Galtieri nei 20 anni passati in Argentina dove racconta ha avuto l’occasione di conoscere e interagire ripetutamente con Jorge Bergoglio “quando ancora non era il Santo Padre, ma soltanto un padre Santo,” racconta illuminandosi in viso. Si perché per lui Papa Francesco non è solo un gradito ricordo di gioventù ma, specie alla luce del dissenso espresso verso Trump e le sue politiche, un modello e una fonte di speranza per lui e per i tanti che a lui si rivolgono in preda all’inquietudine, se non addirittura, in molti casi, al panico.
“Papa Francesco ci sta insegnando a essere cristiani un'altra volta. A ritornare alle origini del cristianesimo, quando la tolleranza era al 100%. I migranti hanno un ammirazione speciale per Francesco, lo vedono come un difensore, o meglio un alleato. Lui dice accogliere, difendere, proteggere e noi questo dobbiamo fare. Questo è il cammino del vangelo, questo è il cammino di Gesù. Secondo me deve continuare quel che sta facendo. Che continui a parlare, così magari sempre piu’ gente lo ascolta. Certo – come si dice anche in Brasile – non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E molti cattolici, specie i più conservatori, quelli che danno la precedenza alla dottrina, sulla carità, lo criticano. Anche qui da me c’è un gruppetto che la pensa così e che addirittura ha votato Trump. Qualcuno però ha già cominciato a pentirsi.”
Mentre Padre Volmar esce dalla sagrestia, il parcheggio della chiesa è ancora pieno nonostante la Messa sia finita da un pezzo; qui l’“andate in pace” è solo l’inizio di una domenica di incontri, gruppi di supporto e caffè che si trasformano in pranzo. “Io credo che ci saranno restrizioni su tante cose, compresi i posti di lavoro,” sospira guardando verso la stazione antistante la chiesa dove tutti i giorni, spesso prima dell’alba, tanti dei suoi parrocchiani prendono il treno per andare, gli uomini a costruire e ad aggiustare, le donne a pulire e riassettare, le case degli americani nei quartieri ricchi della vicina Boston – “se vuole Trump li può controllare uno per uno - ma una deportazione di massa quella no, non mi sembra possibile ne da un punto di vista logistico ne tantomeno politico.”