Sheikhupura, Pakistan
La fortezza seicentesca dell’impero Moghul al centro di Sheikhupura, nella provincia pakistana del Punjab, è l'attrazione della città. Domina con le sue torri austere, ma non fa paura. A pochi chilometri di distanza c’è un'altra moderne fortezza, che invece incute timore: il carcere distrettuale. Lì si sta consumando un dramma che ha calamitato l'attenzione di mezzo mondo: quello di
Asia Bibi, cristiana pakistana e madre di famiglia, in prigione da quasi tre anni per false accusa di "blasfemia" contro il profeta Maometto. Asia, 45 anni, è una contadina analfabeta del villaggio di Ittanwali, che si era istintivamente ribellata a un palese gesto di discriminazione:
non poter bere, perché cristiana, alla stessa fonte dove si ristoravano le sue colleghe, lavoratrici agricole. Le stesse donne l’hanno accusata e incastrata, in combutta con un imam locale.
Oggi la speranza per lei è appesa a un filo: dipende dall'abilità di un manipolo di coraggiosi avvocati, dalla trasparenza dei giudici, dall'impegno di quanti, in Pakistan e all'estero, vogliono realmente salvarla e non speculare sul suo caso. Asia Bibi è stata arrestata a giugno del 2009 e condannata a morte per blasfemia a novembre del 2010. La sua vicenda ha scosso il Paese, ha coinvolto la comunità internazionale, ha suscitato un appello di Papa Benedetto XVI e generato solidarietà e preghiera da tutti i cristiani del mondo. Due uomini sono stati uccisi in Pakistan, nell’ultimo anno, perchè hanno preso le sue difese: il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab, e Shahbaz Bhatti, ministro cattolico per le minoranze religiose.
In seguito a questi dolorosi avvenimenti, «molte porte si sono chiuse per Asia Bibi» spiega padre Bernard Inayat, condirettore della rivista "The Chistian View", edita in Punjab. Il suo caso ha assunto un alto valore simbolico che «non aiuta a trovare una soluzione», dice. «I gruppi fanatici islamisti, promotori e difensori della legge sulla blasfemia, non permetteranno che sia liberata, anche se un processo di appello ne appurasse l'innocenza. Ucciderebbero lei e il giudice. Come è già accaduto in passato ad Araf Iqbal Bhatti, ucciso perché aveva assolto due presunti blasfemi». Un vicolo cieco, insomma.
La donna è in pericolo anche in carcere: per questo, da circa un anno, si trova in cella di isolamento, «in condizioni subumane, senza vedere mai la luce del sole: i pochi coraggiosi attivisti che l’hanno visitata la descrivono in uno stato di depressione e frustrazione fisica e psicologica», continua padre Inayat. L'ultimo è stato l'avvocato Nawaz Salamat, pakistano con base in Danimarca, del partito "All Pakistan Christian League", che chiede «la cancellazione di tutte le leggi discriminatori esistenti in Pakistan», in primis quella sulla blasfemia.
Islamabad, Pakistan
Ci sono norme usate come arma impropria. Accade in Pakistan. Si tratta, in particolare, di due articoli del Codice penale del Pakistan, il 295b e il 295c che prevedono la pena di morte per quanti insultano il nome del profeta o profanano il Corano. Furono introdotti “manu militari” nella legislazione pakistana dal dittatore Zia-ul-aq, ed entrarono in vigore nel 1986, senza alcun passaggio parlamentare e solo per compiacere i gruppi religiosi, in un piano di islamizzazione che ha coinvolto anche il sistema di istruzione, la società, la cultura.
Se pure il principio del “vilipendio alla religione” è comune alla legislazione di numerose nazioni, a far discutere sono da un lato la pena capitale, considerata da molti “spropositata” e, dall’altro, l’abuso della legge e le sue procedure piuttosto sbrigative. L’accusa di “blasfemia”, basata su false testimonianze, produce l’arresto e viene utilizzata sistematicamente per risolvere controversie di natura privata, come dispute su terreni o proprietà. Le vittime di tali macchinazioni, secondo la Commissione “Giustizia e Pace” dei Vescovi pakistani, sono circa mille in 20 anni, per quasi la metà musulmane. Ma, in particolare, la “legge nera”, come è stata definita, è divenuta una “spada di damocle” e uno strumento di oppressione sulle minoranze religiose, come nel caso di Asia Bibi e di numerosi altri casi che continuano a verificarsi.
Gli avvocati stessi, cristiani e musulmani, ne riconoscono le storture. Aslam Khaki, giurista musulmano di Islamabad, la definisce «una ferita al sistema legislativo», mentre un altro avvocato islamico, che preferisce l’anonimato, ammette senza peli sulla lingua che «nel 90% dei casi di blasfemia l'accusa è fabbricata artificiosamente». Khalil Tahir Sindhu, avvocato cristiano di Faisalabad, in Punjab, ha contato nella sua carriera di difensore 37 assoluzioni di vittime della blasfemia, tutte cristiane. Un successo a livello legale, ma non certo “storie a lieto fine”: gli accusati, se pur assolti, porteranno per sempre lo stigma di “blasfemi” e restano in serio pericolo di vita. Per questo, nota Tahir, «si tratta di 37 famiglie distrutte, di innocenti che hanno trascorso anni di prigione, di persone costrette a sradicarsi e cambiare del tutto vita, pur di sopravvivere».
E per i millantatori acclarati? Nulla, nemmeno un multa che possa scoraggiare la falsa testimonianza.
Lahore, Pakistan
In Pakistan pare proprio che la poltica abbia gettato la spugna. Ha dichiarato la sua impotenza. Se dieci anni fa la società civile, l’opinione pubblica, i mass media e anche le Chiese cristiane chiedevano a gran voce l’abolizione della legge, oggi nessuno osa più aprire un capitolo considerato “tabù”, nemmeno per proporre una modifica procedurale ed evitarne gli abusi. Non lo fanno né il Governo del Partito popolare del Pakistan, condizionato dalle pressioni dei gruppi estremisti islamici, né le forze di opposizione come la Lega musulmana, che porta l’impronta islamica nel nome; anche l’astro nascente Imran Khan, l’ex giocatore di cricket prestato alla politica, promotore di un movimento di massa, glissa sull’argomento.
Il Ministro di stato per l’Armonia nazionale, il cattolico Akram Gill, al massimo si dichiara “favorevole a contrastare l’abuso della legge”, ma nessuna commissione di giuristi è al lavoro per tradurre in concreto tale orientamento. Lo spettro dei gruppi radicali aleggia dappertutto, simboleggiato dalla “madrase” (le scuole islamiche) che a Lahore, capitale del Punjab, spuntano come funghi ad ogni angolo di strada, grazie ai finanziamenti dei gruppi islamici wahabiti dell’Arabia Saudita. La cultura, gli intellettuali, il mondo della letteratura e dell’arte preferisce pensare ad altro e solo qualche voce sporadica, qua e là, si alza coraggiosa a ricordare quella che un vescovo, anni fa, chiamò “la rovina della nazione”.
Intanto Asia Bibi marcisce in carcere e subisce anche la dolorosa beffa della speculazione. «Tante, troppe Ong si sono avventate sul caso, proponendosi come sostenitrici di Asia e della sua famiglia, e lanciando raccolte fondi che chissà dove finiscono», ammonisce Arif, un attivista per i diritti umani di Lahore.
Anche Ashiq, il marito di Asia, abbagliato da un fiume di denaro e notorietà, si presta al gioco, vende i diritti di pubblicazione della storia a un editore francese (operazione quanto meno prematura), sembra pensare più al suo interesse che al bene della donna. Perché oggi, nota Paul Bhatti, fratello del ministro ucciso Shahbaz e Consigliere speciale del Primo ministro, «le pressioni internazionali sul caso di Asia Bibi sono controproducenti, non fanno altro che rinfocolare l’ideologia estremista. Occorre, invece, seguire il percorso legale nel processo di appello, dimostrare la sua innocenza, provvedere poi all’incolumità della donna e alla protezione della famiglia». Una strada che, nel Pakistan odierno, è tutta in salita.