Lahore (Pakistan)
Dal nostro inviato
La chiamano «città dei giardini». Ma oggi gli oltre
mille e cento giardini pubblici
disseminati nel territorio
di Lahore, capitale
del Punjab pakistano, restano
tristemente deserti.
Due mesi dopo l’attentato
kamikaze del 27 marzo nel parco
Gulshan-e-Iqbal – ricordato come
«l’attacco di Pasqua» – paura e cautela
sono ancora palpabili. Il terrorismo ha
colpito al cuore la metropoli di oltre
11 milioni di abitanti, spegnendo la
spensieratezza con cui giovani, bambini
e anziani popolavano le aree verdi,
soprattutto nel fine settimana.
Il nuovo, improvviso allarme sicurezza
registrato in sei scuole della città
nei giorni scorsi ha subito riportato la
memoria a quello che l’edizione pakistana
di Newsweek ha definito «un lutto
impensabile»: le vittime di quella
strage risultano essere, a oggi, 81,
in maggioranza bambini e ragazzi. La
lista continua ad aggiornarsi, registrando
il decesso di altri feriti gravi.
«Siamo nella prova, ma il cuore è pieno
di speranza», spiega a Famiglia Cristiana
il vescovo di Lahore, monsignor Sebastian Shaw, che continua a visitare
regolarmente i feriti in ospedale.
«Abbiamo sotto gli occhi commoventi
esempi di fede autentica e di testimonianza
evangelica. Madri che hanno
perso i loro figli. Bambini che hanno
visto morire fratelli e sorelle. Anche
nei momenti più difficili, i fedeli non
hanno mai smesso di confidare in Cristo.
E questo dà speranza a tutti, anche
a me», nota. «Come Chiesa in Pakistan
non vogliamo vivere con una mentalità-
ghetto ma riferirci all’immagine
evangelica per essere sale, luce e lievito
nel nostro Paese», spiega.
Nell’attentato di Lahore sono
morti 24 cristiani e 57 musulmani.
La Caritas garantisce assistenza
materiale e accompagnamento psicologico
alle famiglie colpite. Tra le
vittime c’erano due sorelle, Saman,
19 anni e Arooj, 15, cattoliche. La loro
famiglia abita in un quartiere popolare
nell’area di Anarkali. «Erano andate
al parco dopo la Messa di Pasqua,
con il fratello», racconta il parroco,
don Philip John. Il ragazzo si è salvato
e ha raccolto i corpi senza vita delle
due giovani. Arif, padre delle ragazze,
è sconvolto: «Siamo straziati dal dolore,
ma il Signore ci è vicino», dice
baciando in lacrime il loro ritratto. «Il
Signore ha dato, il Signore ha tolto:
sia benedetto il suo nome», ripete
con l’umiltà dei semplici, citando
un passo del libro di Giobbe, tratto
dall’Antico Testamento.
La stessa speranza anima oggi la
quarantenne cattolica Shama Pervaiz,
madre di Soahil Pervaiz, 11 anni,
anch’egli morto nell’esplosione. «Il
Signore è il mio rifugio. Non manco di
nulla», dice con le parole del Salmo, ricordando
il suo figlioletto a cui la Saint
Francis school, istituto che frequentava,
sta per intitolare un’aula. I suo piccoli
amici sono ancora sotto shock per
la perdita di un compagno di giochi, di
studi, di avventure.
Poco più grande di età era Akash, altro ragazzo che oggi la comunità cattolica di Lahore non può dimenticare: è un nuovo martire. «Akash ha sacrificato la vita per evitare una strage», racconta ancora emozionato padre Francis Gulzar, parroco di San Giovanni, nell’area di Yohannabad, quartiere di Lahore interamente cristiano. Qui il 15 marzo di un anno fa, due kamikaze hanno attaccato due chiese, una cattolica e una protestante, gremite per la Messa domenicale. Solo l’intervento deciso di Akash, che ha bloccato con il suo corpo l’attentatore, morendo con lui, ha impedito che l’ordigno scoppiasse all’interno dell’edificio. «Il suo coraggio, la sua fede, la sua dedizione per la comunità sono d’esempio per tutti», osserva padre Gulzar.
Non è un caso se oggi in Pakistan molti giovani come lui desiderano diventare sacerdoti o religiosi, offrendo la loro vita a Cristo. Inayat Bernard, rettore del Seminario minore di Santa Maria a Lahore, riconosce nel boom di vocazioni un dono della Grazia, in un tempo di prova: «In meno di un anno e mezzo abbiamo celebrato in Pakistan 23 ordinazioni sacerdotali, tra preti diocesani e religiosi, e 15 nuovi diaconi che si preparano a diventare preti nel 2016», rileva. E mentre il suo istituto ospita 26 giovani, ce ne sono 96 nel Seminario maggiore a Lahore e altri 79 frequentano l’Istituto nazionale di teologia a Karachi. Sono numeri che «preannunciano un futuro roseo per la Chiesa cattolica in Pakistan», commenta padre Inayat. Segno di speranza nelle difficoltà che «rafforzano la nostra fede: oggi ne apprezziamo i frutti», osserva.
I frutti si raccolgono oggi perché qualcuno, oltre cento anni fa, ha lasciato in questa terra semi di Vangelo: furono i cappuccini belgi che nel 1886 portarono Cristo in questa parte del subcontinente indiano.
Continuando idealmente quella missione, don Pietro Zago, salesiano italiano di 81 anni, da 18 in Pakistan, è impegnato con i giovani: «Li aiutiamo a diventare buoni cristiani e buoni pakistani e a vivere la fede nella gioia ma anche nei frangenti più tristi», sottolinea. Nell’oratorio salesiano di Lahore ci sono 450 ragazzi, accompagnati nel percorso di istruzione (dalle elementari alle superiori) e nella formazione professionale. «Perché ho donato la mia vita al Pakistan? Perché Cristo ha detto: qualsiasi cosa farete al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatta a me. Senza specificare se quei piccoli dovessero essere cristiani, musulmani o indù».